Un ricordo a cent'anni dalla nascita del Partito comunista d'Italia
Ha senso, in questi giorni, ricordare la nascita (a Livorno, il 21 gennaio del 1921) del Partito comunista d’Italia, frutto di una scissione maturata nel Partito socialista italiano? Forse sì, forse no, dipende dal punto di vista e dagli itinerari politico-ideologici personali. Certo, il sole del comunismo è tramontato. I compagni italiani risolsero di voltar pagina dopo il crollo del Muro di Berlino. Achille Occhetto, l’ultimo segretario, decise nel novembre del 1989 ch’era giunto il momento di ripiegare le vecchie bandiere. Nel 1991 sulle ceneri del Pci vedeva la luce il Partito democratico della sinistra. E tuttavia, anche in quella fase convulsa e tormentata, una nutrita pattuglia di militanti volle rimanere fedele alla tradizione, dando vita a Rifondazione comunista. Ancora una scissione dunque, dopo quella intervenuta cent’anni prima sotto i loggioni del Teatro Goldoni.
Da un’ottica storica, non possono sussistere dubbi: ideologia e pratica del comunismo appartengono agli spasmi del «secolo breve», il Novecento, e dunque anche alle vicende dei singoli paesi, Svizzera compresa. «Il XX secolo risulta incomprensibile senza la storia del comunismo», osserva nel suo ultimo ampio saggio Brigitte Studer, emerita dell’Università di Berna (Viaggiatori della rivoluzione mondiale. Una storia globale dell’Internazionale comunista, Suhrkamp Verlag). Non tutti i partiti assunsero la rilevanza politico-elettorale dei «fratelli» italiani, francesi e spagnoli. Eppure sopravvissero, magari ai margini, bersagliati da scherni, discriminati nelle carriere, ma senza mai arrendersi. Tobia Bernardi ha ricostruito in un denso studio pubblicato l’anno scorso dalla Fondazione Pellegrini-Canevascini («Da Oriente viene la luce del sole») la storia del Partito operaio e contadino dal 1944 al 1959: questo il nome che i comunisti ticinesi si erano dati dopo ch’erano stati messi al bando dalle autorità federali durante la guerra.
La bibliografia è ormai sconfinata. Fino alla pubblicazione del saggio di François Furet, Il passato di un’illusione (1995), ha prevalso la narrazione apologetica, sebbene non siano mancate le indagini serie, come quella svolta da Paolo Spriano sulla base di materiali d’archivio (cinque ponderosi volumi editi da Einaudi). Anche la mole della memorialistica – diari, lettere, autobiografie, testimonianze, interviste – è stata imponente, proprio perché la questione penetrava nella carne viva, accendeva gli animi provocando sempre nuove divisioni e correnti.
Al genere diaristico appartiene anche il volume che Marco Fantuzzi ha recentemente dato alle stampe presso Dadò. Titolo: Diario d’aldilà. Urss 1976, con prefazione di Alessandro Martini. L’autore ha ripreso in mano un quadernetto di appunti presi durante un soggiorno di studio nell’allora patria del socialismo (realizzato o in fase di realizzazione). L’anno è nodale. In Italia il Partito comunista di Berlinguer, nelle elezioni del 20 giugno, aveva ottenuto il 34,4% dei voti, avvicinandosi parecchio alla Dc (38,7). Nel contempo sembrava che altri due partiti-fratelli dell’Europa occidentale (i francesi di Georges Marchais e gli spagnoli di Santiago Carrillo) intendessero svincolarsi dalla tutela sovietica per imboccare una strada diversa, quella dell’«eurocomunismo». La formula incontrò sulle prime una certa fortuna, anche se poi non fece molta strada: la prospettiva rimaneva nebulosa e indefinita. Quella parola – comunismo – pur attenuata dal prefissoide «euro» non persuadeva acuti critici come Bobbio e come Salvadori.
Quando arriva a Mosca, nel luglio del 1976, il trentenne Fantuzzi porta con sé questo bagaglio di suggestioni assieme alla sua formazione di critico letterario. L’atmosfera è quella di una scampagnata nei territori del marxismo-leninismo, allietata da frequenti bevute di vodka, l’unico diversivo tollerato dal regime, forse – annota maliziosamente Fantuzzi – per farsi perdonare il grigiore dei casermoni e i disservizi che angustiano la popolazione. Le lezioni impartite dai «professoroni» autorizzati dal Cremlino non attizzano la delegazione dei giovani comunisti elvetici; Fantuzzi, che la guida dall’alto del suo titolo universitario, pone interrogativi e solleva dubbi sull’efficienza del sistema. Si attira quindi critiche e il sospetto di deviare dall’ortodossia.
L’autore non si è limitato a raccogliere i 28 fogli manoscritti di questa sua spedizione a Mosca e a Tallin: nel riprenderli in mano ha voluto corredarli di un commento esplicativo, una lunga chiosa redatta quarant’anni dopo, in un clima politico e culturale profondamente mutato. Un’asincronia – quella tra l’«Urtext» del 1976 e le riflessioni odierne – che non mancherà di intrigare i lettori.
Chi ha vissuto quegli anni ricorderà i dissidi, le dispute dottrinali, le illusioni e le infatuazioni. Formule come «dittatura del proletariato», «egemonia» e «terza via» nutrivano una saggistica torrenziale. La prospettiva eurocomunista indusse persino l’Unione europea svizzera ad organizzare nel novembre del 1977 a Lugano un convegno dal titolo Eurocomunismo: sfida all’Europa (i cui atti furono poi raccolti in volume da Antonio Spadafora per Casagrande). L’incognita riguardava il destino della Comunità europea qualora in uno o più Stati del blocco occidentale dovesse insediarsi un governo a partecipazione comunista.
Restava da capire quale fosse la cruda realtà d’oltrecortina, quell’immenso «aldilà» avvolto nelle nebbie della propaganda sovietica onnipresente. Il Diario di Fantuzzi ricostruisce i tratti essenziali di quella contingenza osservata con gli occhi del militante occidentale in gita. Una stagione ormai lontana, com’è lontana quell’ideologia che attraverso sofismi cercava di giustificare la via sovietica al socialismo.