La qualità richiesta a chi affronta un problema delicato è la consapevolezza della portata. Chi ha elaborato il progetto Lyra è in tempo per fare di meglio
La questione del futuro di Rete 2 rientra nel vasto tema del posto della cultura nei media. Non è facile stabilire quale sia il significato del termine “cultura” in questo contesto. Si tratta di un ambito distinto da quello della cultura intesa, alla maniera degli etnologi, come complesso di tutte le manifestazioni umane; ma anche dall’insieme dei vari saperi specialistici e pure dalla cosiddetta “cultura di massa”, ampiamente presente nei mezzi di comunicazione. Per definire questo concetto di cultura il pensatore inglese Michael Dummett ha proposto tre tratti distintivi: a) essa richiede particolari doti e competenze in chi la crea; b) deve dare piacere ma pure sviluppare la mente, la sua capacità di sentire, pensare, creare; c) infine, e questo è il punto più delicato, la cultura di cui parliamo, per svolgere la sua funzione, non può rivolgersi solo agli specialisti che la creano, come accade per la maggior parte delle attività che richiedono competenze particolari, a cominciare da quelle tecnico-scientifiche, ma occorre che divenga parte della vita spirituale di un numero più largo di persone. Arte, letteratura, musica, teatro, filosofia e certo altro ancora, visto che i suoi confini sono mobili e storicamente determinati (si pensi all’irruzione novecentesca del cinema), costituiscono questo specifico ambito spirituale, la cui identità oggi è molto più incerta di un tempo.
La costante tensione nella cultura fra difficoltà della produzione e della fruizione, da un lato, e necessità di andare oltre l’ambito degli “specialisti”, per raggiungere i profani interessati, genera quelle eterne querelles su come affrontare il pericolo di parlarsi addosso e quello di banalizzare. In gioco vi è lo sforzo di contrastare quella tendenza alla divisione intellettuale del lavoro e alla specializzazione che è presente nella società moderna e contemporanea, senza cadere nel puro intrattenimento o nella mera commercializzazione. Si tratta di un’espressione di quell’ideale umanistico e illuministico declinato in tanti modi diversi nella storia. La cultura vive in quella condizione comunicativa in cui si trova ognuno di noi quando deve parlare a qualcuno di cose complesse, magari personali, che gli stanno molto a cuore, cercando di farsi capire ma anche di essere fedele al contenuto da trasmettere. Queste sono le situazioni in cui il nostro coinvolgimento emotivo, la nostra concentrazione intellettuale e il nostro bisogno di aprirci ad altri sono a livelli talmente alti che può anche crearsi un corto circuito cominciativo.
Il rapporto problematico fra la società e una cultura costantemente combattuta fra volontà di comunicazione e volontà di verità, fra funzione fatica e funzione referenziale, è connesso anche al fatto che gli uomini di cultura fanno parte della categoria delle persone non direttamente collegate alla produzione. Essi sono spesso dei mantenuti, in un modo o nell’altro, e appartengono a quello che il sociologo ed economista americano Thorstein Veblen chiama “l’agiatezza secondaria”: quella concessa ai “servitori” delle classi ricche laiche o religiose, i quali ne devono confermare il potere e il prestigio, svolgendo, grazie al sostegno padronale, attività oziose e dispendiose ad onore e compiacimento dei signori, destino che gli uomini di cultura hanno condiviso per molto tempo con i lacchè riccamente agghindati. Sponsor privati ed enti pubblici sono le varianti contemporanee, meno immediatamente “padronali”, in questa situazione di dipendenza; essi si affiancano al mercato culturale, allargatosi con la scolarizzazione di massa, e alla relativa industria, la cui presenza favorisce una maggior libertà ai creatori di cultura rispetto al passato remoto delle corti principesche, ma determina nuovi vincoli consumistici rispetto ad un passato più prossimo, quello della “civiltà borghese europea”, estintasi nel XX secolo. L’aria fatua e decorativa, da accattivante “domenica della vita”, “vacanza annuale” o “meritata quiescenza” per un pubblico di pensionati benestanti, che circonda molte manifestazioni culturali, anche di alto valore, conferma quei caratteri di agiatezza dispendiosa del consumo culturale evidenziati da Veblen. La considerazione della cultura come un lusso e la condizione di fragilità e dipendenza economica dei suoi operatori sono emerse con drammatica evidenza in questi mesi di pandemia, durante i quali le attività culturali sono state cancellate con minor esitazione e rammarico di quelle della ristorazione.
D’altra parte la creazione culturale, per quanto segnata dal peccato originale del privilegio e della familiarità interessata con i potenti, ha in sé, anche grazie al suo distacco dall’attività economica e alla sua non piena integrazione sociale, un’autentica carica utopica e critica, come ricerca di senso e verità, di unicità e perfezione, di emancipazione, di sfida ai luoghi comuni, di lotta contro l’omologazione. Essa molto spesso cerca ascolto per provocare l’ascoltatore, comunica per denunciare l’incomunicabilità, accende la speranza evocando la disperazione, perora il progresso reagendo all’innovazione, promuove una superiore utilità difendendo l’inutile, cerca il senso mostrando l’assurdo. In tal modo la cultura dà un contributo decisivo allo sviluppo di una coscienza critica sul piano individuale e sociale, che non può essere surrogato neppure dalla migliore cultura di massa, con la sua costitutiva tendenza a farsi indistinto e anonimo flusso volto all’intrattenimento. Come è comprensibile, questo atteggiamento della cultura, in sé vitale, può trasformarsi in caricatura, in vuoto intellettualismo, in un grottesco épater les bourgeois, in ossessiva volontà di distinguersi o ingiustificato pregiudizio per tutto ciò che è semplice e immediato (carino, piacevole, di successo, ecc.); ma non può assolutamente essere ridotto a questo. Persino nella sua funzione decorativa, la cultura può essere denuncia del potere che l’assolda e che comunque finisce con l’omaggiarla, tenendosi almeno a un passo di distanza dalla mera brutalità, guardata con favore dai vari populismi e dalla razionalizzazione neoliberista: a un passo da quel parlare come si mangia, in cui, ovviamente, è bandita anche la forchetta.
Dunque, il rapporto col signore mecenate, con lo Stato finanziatore, con il mercato e il “vasto pubblico” dei consumatori, spettatori, ascoltatori rappresenta, per almeno una parte di chi produce cultura, sempre anche lo scontro con un soggetto estraneo e addirittura ostile, ma nel contempo indispensabile, come interlocutore e come bersaglio. Un rapporto pacificato fra queste due istanze contrastanti sa di tradimento della cultura. Lo spirito, come scriveva il filosofo francofortese Theodor Adorno, non deve mai “diventare euforico nel suo venir tagliato su misura addosso al cliente.”
Il futuro della presenza della cultura alla RSI ha molto a che fare anche con quanto più sopra scritto. Il confronto è fra chi difende, con Rete 2, uno spazio culturale ben definito, che rappresenta anche un importante patrimonio civile e identitario, e chi pensa che sia giunto il momento di rompere certi steccati giudicati ghettizzanti, alla ricerca di un pubblico più vasto. Su queste colonne, lo storico Danilo Baratti ha opportunamente ricordato come il tema non sia nuovo, e come all’inizio degli anni Novanta vi fosse stata un’animata discussione in proposito. Anche chi scrive ebbe allora l’occasione di intervenire in merito e, come del resto in circostanze successive, pure nel suo ruolo istituzionale nella CORSI, di difendere l’esistenza di spazi definiti, quasi luoghi di resistenza, riservati alla cultura, una resistenza che è cosa diversa dal giusto sforzo di migliorare il tipo di cultura di massa presente nei media. Certo, il rischio che tali luoghi si trasformino in mausolei non va sottovalutato. Ma, pur riconoscendo la necessità di un rinnovamento dei modi della comunicazione dei contenuti culturali, compresi quelli adottati da Rete 2, e di un indispensabile potenziamento (o, sarebbe meglio dire, risanamento) culturale della Rete 1, trovo che non si debba confondere la ricerca di una maggiore diffusione del messaggio culturale con la sua mera diluizione in un ambiente indistinto; temo in particolare la faciloneria di chi pensa che ci sia modo di parlare di tutto a tutti in tutti i contesti, senza difficoltà. Nel mondo della comunicazione vi sono inevitabilmente persone che ritengono che “comunicare” sia un verbo intransitivo, vale a dire che l’importante sia comunicare, sempre e comunque, anche a costo di non comunicare nulla. Questi operatori del settore traggono grande forza dalle potenti logiche dell’industria della cultura (quote di mercato, indici di ascolto, numero di partecipanti a grandi eventi, ecc.) e dal generale disorientamento riguardo ai valori culturali.
L’auspicabile specialismo del creatore di cultura, che lo distingue dal suo destinatario, esige un lavoro delicatissimo di mediazione, in cui figure come ad esempio critici (qualcuno c’è ancora) e giornalisti culturali devono svolgere un ruolo delicatissimo e decisivo, che richiede una sensibilità per le ragioni delle parti in causa che comporta un talento naturale e una grande preparazione specifica. Alla RSI persone di questo tipo non mancano. In particolare una radio di approfondimento culturale può ancora dimostrarsi il luogo più adatto per far circolare quei saperi e quelle forme di espressione spirituale che sono frutto di un’attività rigorosa e che aspirano a rivolgersi ad un pubblico che sia alla ricerca, oltre che di intrattenimento, anche di strumenti di comprensione e formazione.
È inutile nascondersi dietro un dito: è assai forte l’impressione che non siano soprattutto professionisti con quel profilo che abbiano dato direttamente l’impronta al progetto di radicale ristrutturazione dell’offerta culturale, a cominciare da chi ha guidato la commissione che lo ha elaborato; un progetto di cui, per altro, si conosce assai poco: di fatto l’unica cosa certa è la cancellazione della quasi totalità dei contenuti del parlato di Rete 2. Una decisione che più che l’intento di affrontare in forma nuova un compito antico, quello di fare cultura alla RSI, rivela la volontà di rinunciare in buona parte ad assolvere questo compito.
La prima qualità richiesta a chi affronta un problema grande e delicato è la consapevolezza della sua portata e delicatezza. Chi alla RSI ha elaborato il progetto Lyra, questa qualità non l’ha per ora dimostrata. Ma non è mai troppo tardi.