Lo storico Danilo Baratti sul progetto di ridefinizione dell'offerta audio della Rsi e su una certa di cultura che ha il responsabile delle radio
Ascolto regolarmente Rete Due da più di trent’anni. Ho quindi seguito con partecipazione il dibattito sviluppatosi intorno alla prospettiva di una sua trasformazione/liquidazione. Qua e là gli elogi mi sono sembrati anche eccessivi, visto che il mio rapporto con Rete Due non è tutto rose e fiori. Mi capita con una certa frequenza di spegnerla d’impulso – per esempio per qualche vaniloquio, per l’ennesima “promo” martellante e ripetitiva, per qualche musica (almeno per me) fastidiosa – o di provare a passare su Rete Uno, incappando magari in momenti interessanti. Di più: nel tempo, pur con qualche bella sorpresa, si è assistito a un lento peggioramento di Rete Due, un po’ per lo spirito dell’epoca, un po’ per la riduzione delle risorse. Però continuo ad ascoltarla e a trovare motivi per farlo. Mi associo quindi a chi si è espresso con preoccupazione o sgomento di fronte alla prospettiva di un suo stravolgimento.
Fatta questa dichiarazione, entro a mia volta nel merito partendo da lontano. Qualche tempo fa, allestendo un fondo archivistico legato a Bixio Candolfi, ex direttore dei programmi radiotelevisivi (importante, tra l’altro, anche per la cultura alla radio), mi è capitato tra le mani un fascicolo dell’«Informatore SSM», il bollettino locale del Sindacato svizzero dei Mass Media: il numero 227 del novembre 1992 intitolato «Speciale Rete 2». Sono andato a ripescarlo perché anche lì si discuteva del futuro della rete culturale e della sua possibile scomparsa. Un aspetto curioso è che tra le voci che in quel fascicolo si esprimono su Rete Due c’è pure quella di Sergio Savoia, allora collaboratore di Rete Tre, oggi responsabile dell’«offerta lineare del settore Domani» e alla testa del progetto Lyra che tanto fa parlare. Come emerge dagli ottimi interventi di Nelly Valsangiacomo («la Regione», 7 e 22 dicembre) questo progetto, di cui ancora sappiamo poco, non nasce dal nulla: ubbidisce a logiche e strategie aziendali in atto da tempo e quindi nelle sue linee generali non è certo un’invenzione estemporanea del neonominato Savoia. D’altra parte a difendere questa ricomposizione/sottrazione dell’offerta lineare si è esposto finora, con l’abituale affettazione paternalistica che induce alla diffidenza, il direttore uscente Maurizio Canetta, che ormai ha poco da perdere. E che a «Millevoci», il 14 dicembre, ha fatto la morale ai protestatari – una élite spocchiosa che non capirebbe la necessità di andare a cercare altri pubblici con nuovi linguaggi (come se questo implicasse necessariamente la rinuncia al parlato della Due) – insieme a Cathy Flaviano che ha insegnato – a chi è in agitazione per la sorte di Rete Due! – che anche la musica è cultura. Per il resto, silenzio, come ha sottolineato Tommaso Soldini («la Regione», 23 dicembre). E allora può essere utile dare voce al giovane Savoia, perché quel testo del 1992 offre spunti interessanti per qualche riflessione di carattere generale sulla questione.
Dopo aver ricordato la sua esperienza a Rete Due, negli anni Ottanta, e la sua partenza dalla stessa, Savoia scriveva: «Rete Due continuò a fare cultura, io decisi di cominciare a fare radio e non mi vergognai di andare a farla, sporadicamente, su Rete Tre. Certo, comunque, che prima o poi anche sulla Rete Due si sarebbe imboccata la strada che “dalla cattedra” portava finalmente negli studi di una radio moderna, che parlasse come mangiava e non si vergognasse di farsi capire. Adesso, almeno confusamente, questo sforzo si sta facendo e immagino che (…) vi siano non poche resistenze tra coloro che vorrebbero fare una radio preconciliare, magari in latino classico. Questo mio contributo è volutamente di basso profilo culturale, come del resto temo sia la mia collaborazione alla RSI (RSLI per essere più precisi) ma ritengo che sia quasi più importante divertirsi facendo radio che non preoccuparsi di cose come il “rigore”, la “professionalità” e concetti simili».
Da queste frasi emerge un’astiosa sufficienza nei confronti del “mondo culturale”, della sua “serietà”, delle sue supposte modalità comunicative, rafforzata dalla rivendicazione orgogliosa e provocatoria di un proprio «basso profilo culturale». È un vecchio testo, si dirà, e giustamente. Molto vecchio. Ma questo atteggiamento giovanile è perfettamente in linea con quello del Savoia maturo, emerso nel corso della sua recente parabola politica, quando ammiccava – avevo scritto a suo tempo – «a quell’anti-intellettualismo viscerale che certamente fa parte del DNA del nuovo target elettorale» (e lo faceva soprattutto sul suo blog, poi accortamente oscurato quando è stato riassunto in radio, tanto più che non vi mancavano le bordate contro l’ente per cui oggi lavora). A ciò si accompagna un’accezione esclusiva e univoca del “fare radio”, e di conseguenza del modo di proporre “la cultura” alla radio. E anche del “divertimento”, che sembra avere una sola faccia, quella chiassosa e spaccona, possibilmente un po’ volgarotta.
Una visione delle cose che porta quasi inevitabilmente a impacchettare ogni contenuto culturale con trovate da imbonitore o a dissolverlo in un gioviale chiacchiericcio, come paventava qualcuno tra gli intervenuti nel dibattito (per primo Tommaso Soldini, «La Regione», 7 dicembre). E riprendo in proposito quanto avevo scritto non molto tempo fa in un articolo dedicato a una trasmissione culturale condotta in televisione da Giovanni Orelli nei lontanissimi anni ’70: «oggi sembra inconcepibile, a chi decide i programmi televisivi, parlare di “cultura” senza annegare il discorso (su un tema, un libro, un problema) in un’accozzaglia di elementi diversivi e di ammiccamenti. Nel conclamato intento di attirare e mantenere l’attenzione del telespettatore/cliente si costruisce una cornice che finisce per mettere in ombra l’oggetto, la persona, la parola. E allora bisogna intervistare uno scrittore in una stazione ferroviaria, parlare con un’autrice nel reparto alimentari di un grande magazzino, presentare un saggio a bordo di una carrozza tirata da cavalli, segnalare ansimanti un libro mentre si fa jogging in un parco, parlare di una pubblicazione mentre sullo sfondo un presunto comico si agita e fa le boccacce, discorrere con un poeta negli anfratti di una miniera dismessa, riferire di un convegno letterario lanciandosi con un parapendio biposto da una cima innevata. Il tutto possibilmente con una conduzione gigioneggiante e con un ritmo che ammazza il pensiero». Non rischia di essere questo l’orizzonte comunicativo dei nuovi servizi culturali proposti sulla Uno o su piattaforme varie in sostituzione del “parlato” di Rete Due? Il risultato di quel necessario processo di “adattamento” prospettatoci da Canetta? E non intendeva forse anche questo Savoia, quando auspicava una radio che sapesse parlare come mangia?
Il problema è cosa si mangia, e pur con qualche caduta Rete Due mangia meglio. Che si tratti di cibo del corpo o di cibo dello spirito, l’auspicio è che tutti abbiano la possibilità di mangiare meglio, in un mondo che impone cibo spazzatura sulla tavola e nell’etere. E questo è compito di una radio di servizio pubblico: Rete Due andrebbe semmai ripotenziata nella sua offerta lineare (da ricucinare poi, con le spezie del caso, su piattaforme varie) e non ridotta al lumicino.