Christian Genetelli, professore di letteratura all'Università di Friburgo, sul progetto di ripensamento dell'offerta audio della Rsi
Da una decina di giorni si rincorrono notizie, opinioni, prese di posizione, precisazioni intorno al progetto di ristrutturazione della Rete Due della Rsi. Un punto fermo del progetto, lasciando stare le percentuali residue, sembra essere la riduzione o amputazione del parlato.
Potrebbe anche non essere una cattiva notizia, se medicasse l’incontinenza verbale che affligge tanti prodotti mediatici; lo è invece perché va a colpire lo spazio, da sempre assediato, della parola meditata. In questa categoria rientra infatti larga parte dell’offerta di una rete culturale come Rete Due, in cui l’intrattenimento (perché di intrattenimento si tratta) non è un’asta al ribasso, ma chiama a sé, a testimoniare e interloquire, chi su quel determinato argomento ha qualcosa da dire, possedendone vera conoscenza: per studio, per esperienza, per sensibilità. Succede così che, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, si possa sentire e scoprire una pluralità di voci di diversa provenienza e su vari argomenti, che contribuiscono a ossigenare un piccolo mondo dove si può facilmente morire, senza nemmeno accorgersene, per asfissia. E poi non basta leggere, guardare, ascoltare: è necessario il confronto, il consiglio, la parola altrui (e viene in mente J.M. Coetzee: «Non è la parola che fa dell’uomo un uomo, ma la parola degli altri»), perché quelle pratiche, pur salutari, acquistino il loro pieno senso e valore: l’incetta solitaria e compulsiva nuoce in ogni campo, pure nella cultura, che non può rinunciare alla sua dimensione sociale. Ma, appunto, per farla vivere ci vogliono anche i media, già così sofferenti proprio sul fronte culturale, solo che si pensi ai giornali. Sacrificare quest’altra oasi, Rete Due, togliendole la parola, significa fare un altro passo verso il deserto.
Sono due gli argomenti utilizzati in queste circostanze (intendo, ristrutturazioni e simili eufemismi) per giustificare l’ineluttabile (così almeno secondo l’affossatore di turno, occhio severo, faccia da cerimonia): quello economico e quello che potremmo dire dei tempi che cambiano. Sul primo, ci si potrebbe limitare a ricordare che i costi della cultura sono notoriamente bassi, nanoparticelle rispetto ad altri settori diversamente voraci. Ma non mi fermerei a questo rilievo poco più che contabile: aggiungerei (ricalcando Saba, che lo applicava splendidamente ai poeti) come la cultura prometta di meno ma mantenga di più: il suo lascito, felicitante, si iscrive nella durata, tanto dell’individuo quanto (di nuovo) della società.
Il secondo argomento (i tempi che cambiano) nello specifico si traduce in progetti di travaso dell’informazione e dell’approfondimento culturale in altre piattaforme, che tutti già in vari modi utilizziamo. Niente di troppo nuovo, dunque. Difficile allora accusare di passatismo o di misoneismo chi nutre qualche dubbio sull’efficacia dell’operazione, se pensata unicamente in questa direzione (podcast e affini). Provando a fare tesoro nella riflessione della dolorosa, mutilante esperienza pandemica che ci accomuna, osserverei anzi che fra le caratteristiche di questa esistenza a percentuale ridotta c’è proprio l’assenza dell’incontro inatteso, del non previsto, del non strettamente pianificato, dei tanti fattori vivificanti che rientrano nell’area dell’accensione e della sorpresa, così ricchi di potenzialità, anche conoscitive. Il modello-podcast, che ha una sua innegabile utilità purché non diventi esclusivo, induce però il fruitore a cercare ciò che già conosce, a inseguire conferme ed evitare dubbi, a rifare sentieri conosciuti, a incattivirsi sugli stessi chiodi. La radio lineare, invece, quando fatta di voci intelligenti e di parole competenti (e per questo educate), assomiglia un po’ di più alla vita vera, quella che vorremmo. Perché ridurla all’afonia? Perché, al contrario, non potenziarla, aiutandola a raggiungere nuovi ascoltatori?