Il musicologo Carlo Piccardi, già responsabile del dipartimento musicale di Rete Due, sull'importanza del giornalismo culturale
Di fronte al ridimensionamento di Rete Due a canale radiofonico musicale cominciamo col dire che è stupefacente che una notizia di simile rilievo sia emersa non da una conferenza stampa ufficiale ma sia trapelata da referenti di riunioni interne del personale, praticamente “di nascosto”, come se l’ente avesse scelto di far passare l’operazione alla chetichella. Quanto alla prospettiva di ridimensionare Rete Due a rete essenzialmente musicale può essere utile il confronto con la situazione che vissi nel 1994 quando, essendo già responsabile del dipartimento musicale a Rete Due, venni nominato al posto di caporete ma con il conseguente obbligo di cumularvi la funzione precedente. Non vorrei sminuire i miei meriti, ma non è escluso che, a determinare quella scelta allora abbia concorso il vantaggio che ciò procurava all’ente in termini di risparmio, nel senso di “prendi due, paghi uno”. Tuttavia chi si attendeva un rafforzamento della rete come programma essenzialmente musicale fu deluso. Non solo non mi mossi in quella direzione, ma sostenni con vigore la linea impostata l’anno prima da Enrico Morresi, “responsabile del parlato” nel mirare a un giornalismo culturale non più solo letterario e artistico ma anche politico, economico, scientifico, religioso.
Evidentemente la musica (seria o leggera che sia) non sarebbe tale se non fosse riconosciuta nella sua componente edonistica. Tuttavia la “musica d’arte” soprattutto (quella che impropriamente chiamiamo “classica”) si impone all’attenzione come valore culturale, ricco di significati artistici, storici, sociali meritevoli di essere portati al riconoscimento da parte dell’ascoltatore. Ecco la ragione per cui questo tipo di musica è inscindibile dal contesto in cui parallelamente si collocano i prodotti letterari, artistici, ecc. Orbene, scegliendo il modello indicato, e con altri interventi a livello delle modalità comunicative soprattutto – dopo la penitenza subita dagli umilianti rilevamenti d’ascolto “decimali” del vecchio poco attendibile sistema – nel 2001 arrivammo a portare la rete, dopo l’introduzione del “Radiocontrol”, alla quota d’ascolto dell’8,3% (addirittura superiore alla media del 5% in cui si collocavano le reti culturali delle consorelle della Ssr). Al di là degli obblighi di servizio pubblico giustamente richiamati, già un simile traguardo, che fotografava (e fotografa ancora) la realtà dell’ascolto culturale nella nostra regione in termini di disponibilità, dovrebbe far riflettere. Di fronte a un simile potenziale il ridimensionamento prospettato non significa altro che un ‘tradimento’ delle aspettative.
Ma, a difendere l’impostazione di Rete Due come si è affermata, concorre un altro fattore, specifico della nostra condizione di minoranza nell’ambito svizzero. La struttura federalistica della Ssr è fondata sul riconoscimento dell’identità culturale e linguistica delle sue componenti. Ciò significa che la Svizzera italiana vi fa parte in base a questa sua identità, in cui la cultura italiana detiene un ruolo primario. Occorrerà quindi che essa trovi spazio per manifestarsi adeguatamente nei suoi programmi. All’origine, quando non c’era ancora la televisione e alla radio era attribuita una sola frequenza (sulle onde medie) lo era a tutto campo. Lo documentano i vecchi numeri del “Radioprogramma”. Chi abbia possibilità e voglia di sfogliarlo vi troverà articoli e immagini eloquenti a sostegno dei programmi trasmessi. Vi troverà in forma orgogliosamente esibita documenti relativi alla grande arte italiana sapientemente e opportunamente coniugati con testimonianze minori disseminate nel nostro territorio (chiese romaniche, rustici e manifestazioni popolari). In questo senso la nostra radio è stata un autentico specchio del paese. Da una parte è stata un fattore straordinario di modernità, sia come mezzo stesso sia come strumento per collegarci con il mondo nelle sue travolgenti dinamiche, ma nel contempo tenendo salde le radici nelle nostre tradizioni, essendone specchio e nel contempo messa in discussione, inquadramento critico, riuscendo a dosare il particolare regionale con la più ampia prospettiva dello spazio culturale che ci accomuna all’Italia.
Con lo sviluppo dei vari canali e con l’avvento della televisione, col prevalere delle tematiche generiche e dell’intrattenimento questo aspetto è stato vieppiù delegato a Rete Due, a volte diventata addirittura un alibi nel dovere di assolvere questo compito. Ora, ciò che preoccupa nel prospettato ridimensionamento della rete non è solo il venir meno di questa prospettiva ma la sparizione pura e semplice di questa coscienza identitaria, che prima ancora di essere sancita nei regolamenti dovrebbe costituire il bagaglio primario degli operatori radiotelevisivi. A chi oggi concorre per un posto di redattore si chiede una laurea universitaria e conoscenze spazianti sui vari campi del sapere. Nessuno si preoccupa di istruirli sulla storia (fra poco addirittura centenaria) della Rsi. Vi fu un periodo in cui vennero di moda i corsi di management. Ricordo lo specialista che l’ente chiamò da Milano a discettare sulla “corporate identity” come fattore propulsore del suo sviluppo, che cercava di incantarci con i suoi termini tecnici anglosassoni. A raggiungere lo scopo sarebbe bastata una semplice lezione di storia dell’ente. Mi chiedo quindi quanti redattori oggi abbiano letto il libro intitolato Radio Monte Ceneri. Quello scomodo microfono (Armando Dadò editore, Locarno 1990) di Felice Antonio Vitali, il primo direttore della Rsi che vi ha testimoniato appassionatamente la sua avventura mediatica.
Tutto invece è volto a competere con l’internazionalità del sapere, ma anche delle mode in cui spesso (troppo spesso) esso sprofonda, a partire dall’obbligo dilagante del divertire intrattenendo, denunciato in merito in questo giornale negli articoli di Tommaso Soldini e di Michele Dell’Ambrogio. Orbene nella vecchia Radio Monteceneri non c’erano laureati, tutt’al più maestri di scuola (com’era Felice Filippini), i quali tuttavia (come maestri di villaggio appunto) riuscivano a coinvolgere l’ascoltatore motivandolo nella responsabilità di cittadino consapevole stimolato a riconoscersi nelle sue manifestazioni a tutti i livelli, compreso quello che lo accomunava all’Italia, allora fascista, culturalmente madre ma ripudiata politicamente in un processo a dir poco acrobatico di cui fu campione Guido Calgari (1905-1969), da ricordare non solo come intellettuale organico in prima fila nel Ticino di quel periodo ma anche come operatore radiofonico avendo creato alla Rsi la prima compagnia dei radioattori, mantenendo fino alla fine la sua costante presenza al microfono. Sarà un caso allora il fatto che una personalità centrale quale fu Calgari non sia stata ricordata nemmeno da uno straccio di articolo nel 2019 (cinquantesimo della morte)? Nemmeno il sovranismo becero che alligna dalle nostre parti è riuscito a farlo proprio, travisandolo. Brutto segno, che significa da una parte l’indebolimento della coscienza identitaria del paese (di cui la Rsi delle origini è stata una propugnatrice fondamentale) e dall’altra l’incapacità da parte della Rsi odierna di reagirvi ritrovando la sua motivazione originaria, scegliendo addirittura di sopprimere l’unico strumento che le è rimasto per svolgere degnamente questo compito.
In conclusione un’ultima riflessione. Si ritiene normale che una decisione strategica di tale importanza sia avallata dal direttore uscente a pochi mesi dalla sua partenza, ponendo il direttore entrante di fronte al fatto compiuto?