Lo storico Orazio Martinetti sulla proposta di ridurre il parlato dalla rete culturale della Rsi, togliendo approfondimenti e attualità culturale
«Non abbandoniamo Rete Due»: questo l’accorato appello di Ivo Silvestro, nell’editoriale di sabato scorso, cinque dicembre. Vero, non vero? Attendiamo conferme o smentite. Certo, sarebbe davvero singolare se la Rsi decidesse di trasformare la Rete Due in un clone di Swiss Classic, ovvero in un canale quasi esclusivamente musicale: primo passo verso scenari caliginosi, lungo una china che un giorno potrebbe sfociare nella chiusura della rete. Strano perché Rete Due ha dato voce, sin dalla nascita (nel 1985), ad ogni manifestazione culturale della Svizzera italiana, ad ogni gesto creativo che fosse degno di segnalazione. «Il palinsesto è prevalentemente incentrato sulla musica classica e sulla cultura», si legge nei prospetti ufficiali. Definizione un po’ maldestra, dal sapore cancelleresco, quasi si volesse avvertire l’ascoltatore disattento che qui si entra nel regno dello sbadiglio e della pedanteria. Sinfonie sfiancanti, dibattiti tra intellettuali altezzosi e comunque elitari, lontani dai veri interessi del pubblico.
Poi, certo, ogni tanto qualcuno si ricorda della Rete. Succede quando subiamo qualche discriminazione come rappresentanti della Terza Svizzera, quando oltralpe declassano l’italiano nei piani di studio, o quando lo salmistrano senza pietà negli spazi pubblicitari. Allora sì, insorgiamo indignati, per chiedere rispetto e parità di trattamento. Ma si tratta di fuochi di paglia, le cui faville cadono perlopiù su terreni sterili.
Ma come possiamo farci valere, essere credibili nelle nostre rivendicazioni se nel contempo non muoviamo un dito per salvare i nostri gioielli di famiglia, nel caso specifico il secondo canale radiofonico? Tocca a noi soli questa sorte infausta, oppure è parte di un disegno nazionale, che investe pure Radio Srf (Svizzera tedesca) e Espace 2 (Romandia)? E in merito qual è l’opinione della Corsi (Società cooperativa per la Radiotelevisione svizzera di lingua italiana)?
Il momento, lo sappiamo, è difficile per tutti. Per la stampa, che vede assottigliarsi i lettori giorno dopo giorno. Ma anche per la Società svizzera di radiotelevisione, che ha dovuto prima rintuzzare i nemici di sempre (i contestatori del canone radiotv) e subito dopo varare piani di risparmio senza precedenti, con relativi tagli al personale.
Tuttavia – come gli stessi giornali stanno dimostrando – le difficoltà si possono anche superare ricorrendo a soluzioni originali e diversificate, calibrate sui bisogni e i gusti delle diverse fasce di utenza. Ma ad una condizione: che il prodotto offerto sia il risultato di una riflessione corale e condivisa dai produttori.
Purtroppo l’idea che molti si fanno della cultura è tuttora un’idea ristretta e muffa: un microcosmo non indispensabile, equiparato, quando va bene, all’intrattenimento; quando va male, alle peggiori esperienze scolastiche. Le misure avanzate dal governo in queste settimane sono state in proposito rivelatrici: l’indice di una non perfetta comprensione delle esigenze sia del pubblico, sia degli operatori culturali (attori e musicisti soprattutto).
Chiunque abbia ascoltato in questi anni i programmi di Rete Due sa che le cose stanno diversamente. Che non è un museo parlante, né un reliquiario di anime nostalgiche. Che la norma non è la stasi, ma il movimento e la sperimentazione continua di forme e linguaggi, in campo musicale come nella parte giornalistica.
Il Ticino negli ultimi decenni si è dotato di un’università (Usi), di una scuola superiore (Supsi), di un’Accademia di Architettura, di un Conservatorio e di un buon numero di istituti e di centri di ricerca. Mai, nella storia di questo cantone, lo spettro formativo sottoposto ai giovani è stato così ampio e ricco di percorsi. Di tutto questo andiamo giustamente fieri: finalmente, ci diciamo, il ticinese si è liberato del complesso dell’ex suddito, un po’ servile e un po’ lagnoso. Ma fieri si dev’essere anche della nostra radiofonia (fondata, è bene ricordarlo, nei bui anni Trenta, col fascismo alle porte), e cresciuta nel secondo dopoguerra come seconda pelle della società civile, come megafono dei suoi progressi e delle sue ansie, delle sue trasformazioni e convulsioni.
Quindi non abbandoniamo la Rete Due come un’orfanella. Non solo i «ceti riflessivi» ma tutta la società civile deve levarsi in piedi per impedire che si recida quest’altro ramo del nostro frondoso albero culturale.