L'ospite

Rete 2, un bene da difendere

Ridurre il parlato al 6% significherebbe eliminare le caratteristiche più profonde che hanno fatto di questa rete un vero e proprio bene culturale.

Fabio Pusterla (Ti-Press)
9 dicembre 2020
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"Quali che siano le ragioni economiche, nella vita ci sono beni che devono essere protetti": questa frase di Eric, J. Hobsbawn  (Il secolo breve, p.498) sintetizza perfettamente la necessità di difendere e preservare quelle esperienze, quelle realtà, quelle memorie storiche, quelle possibilità di riflessione, cioè quei beni appunto, che sulla base del semplice calcolo economico potrebbero essere giudicati 'in perdita' e quindi sacrificabili. Tra questi beni va annoverata nella Svizzera italiana la rete culturale della Rsi, ora minacciata da un progetto di ristrutturazione che equivale a uno smantellamento.

Ridurre il parlato della Rete 2 al 6%, come pare sia nelle intenzioni dei vertici dell’azienda, significherebbe infatti azzerare tutti o quasi tutti i programmi di approfondimento, di recensione, di commento e di dibattito; cioè eliminare la caratteristiche più profonde che hanno fatto di questa rete un vero e proprio bene culturale, un punto di riferimento costante per le numerose attività artistiche, letterarie, legate al mondo della musica e dello spettacolo, alle manifestazioni e alle politiche culturali del nostro paese. Ridotte al lumicino le antiche pagine culturali dei quotidiani, e ridotti anche numericamente i quotidiani stessi, la Rete 2 è stata, negli ultimi decenni, il solo spazio in grado di dare voce e spazio alla cultura e ai suoi multiformi aspetti. Il fatto che una rete così concepita finisca per rivolgersi a un pubblico meno numeroso rispetto a quello delle reti più generaliste (Rete 1) o più giovaniliste (Rete 3) è probabilmente inevitabile; ma gli effetti benefici di una rete radiofonica di questa natura compensano ampiamente tale dato. La cultura, in effetti, ha bisogno di un ascolto e di un confronto, e insieme di un veicolo di diffusione; un libro, un film, un’opera teatrale o musicale non sopravvivono a lungo nel silenzio, e d’altro canto il lettore e lo spettatore hanno a loro volta bisogno di un discorso, di un sostegno che li faccia sentire parte di una comunità. Le dimensioni di questa comunità culturale possono anche essere ridotte: ma l’irradiazione che la cultura produce sulla società, anche su quei territori sociali apparentemente più sordi alla sua voce, è inestimabile.

Del resto, la frase di Hobsbawm da cui si è partiti aleggiava già alcuni anni or sono, quando una grande sollevazione popolare ha difeso a spada tratta la radiotelevisione pubblica, affossando con chiarezza l’iniziativa 'No Billag'. In quei mesi, ascoltando le notizie, riflettendo sui rischi che si stavano correndo, manifestando per le vie di Bellinzona, il pensiero che ci accomunava era appunto questo: difendiamo una radiotelevisione ancora capace di sottrarsi al puro calcolo economico, alla perniciosa dittatura dell’audience e degli introiti pubblicitari; una radiotelevisione che sappia essere spazio di democrazia, di cultura, di approfondimento, e non solo di interessato intrattenimento; una radiotelevisione che non appartenga a nessuno e appartenga un po’ a tutti, e tutti sappia rappresentare. Rispetto a quel clima, a quel patto non scritto eppure stipulato tra azienda Rsi, giornalisti e pubblico: come si colloca oggi questo sciagurato progetto di smantellamento?

Di fronte a questo progetto, contro il quale sta già circolando una raccolta di firme, è abbastanza ovvio sperare che sappia reagire il mondo della cultura, più direttamente interessato, come ha cominciato a fare da qualche giorno. Ma sarebbe auspicabile che tutti coloro che hanno a suo tempo sostenuto la Rsi pubblica facciano ora di nuovo sentire la loro voce. E, soprattutto, sarebbe auspicabile che a esporsi fossero stavolta anche i giornalisti della Rsi, a cominciare da quelli che lavorano dentro la Rete minacciata. Fonti bene informate dicono che questo difficilmente avverrà: non per malavoglia o debolezza, ma perché il clima all’interno dell’Ente sarebbe in sostanza un clima intimidatorio: se ti esponi, rischi il posto. Se questo fosse vero, le cose sarebbero anche più gravi di quanto già appaiono. E ancora più urgente, più necessaria e più convinta dovrebbe essere la reazione di chi ha creduto e spera di poter continuare a farlo nel servizio pubblico.