America a Pezzi/12

Selma, il ponte dei diritti con un nome da Ku Klux Klan

La gloriosa storia della cittadina dell’Alabama. Con le marce organizzate qui, la comunità nera si è conquistata definitivamente il diritto di voto

Uno scuolabus sul ponte Edmund Pettus a Selma
(R. Scarcella)
14 ottobre 2024
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Selma è tutta rivolta al passato, anche perché un vero presente non c’è più: strade vuote, negozi chiusi, case sprangate. Ha svolto un ruolo cruciale nell’America del Novecento e nella lotta per i diritti civili, ma è molto più grande sui libri di storia che nella realtà. A vederla, ad attraversarla, con i ritmi lenti che si addicono all’Alabama, si fa fatica a definirla una cittadina.

Svuotata dall’interno, passata da 28mila a 17mila abitanti (e sei fortunato se, in pieno giorno, ne incroci più di una dozzina) e da zero incendi dolosi per anni a oltre 40 in uno solo, Selma resiste come simbolo con dentro un altro simbolo, il suo ponte, chiamato – allora e ancora oggi – con un nome che crea una specie di cortocircuito.


R. Scarcella
Strade deserte e celebrazione del passato

Chi era Edmund Pettus

Il ponte è quello di una marcia per i diritti civili del 1965 che poi diventarono tre nell’arco di appena due settimane. Il nome è quello di Edmund Pettus, ufficiale dell’esercito confederato e pii senatore, nonché Gran Dragone del Ku Klux Klan.

Stanche di una vita di soprusi, del brutale omicidio di un attivista durante una manifestazione per i diritti, e della frustrazione per i continui boicottaggi ai tentativi di iscriversi alle liste elettorali (nonostante la legge dell’epoca, seppur con mille trappole e distinguo, lo avrebbe permesso, i neri regolarmente registrati erano appena l’uno per cento), il 7 marzo del 1965 seicento persone decisero di marciare pacificamente sull’Edmund Pettus Bridge. Ad attenderli, tutt’altro che pacificamente, c’erano la polizia, il Ku Klux Klan e – come se non bastasse – tutti coloro che avevano qualcosa da ridire rispetto ai diritti degli afroamericani. Lo sceriffo della contea diede infatti l’ordine di cooptare tutti gli uomini bianchi sopra i 21 anni di età. Si chiamava Jim Clark, era un razzista dichiarato, vestiva sempre in abiti militari, portava con sé, insieme a pistola e manganello d’ordinanza anche un pungolo elettrico per bovini e indossava al braccio una fascia con scritto “Never” (“Mai”), il cui significato era “L’integrazione non ci sarà mai”.


Keystone
La terza marcia da Selma a Montgomery

Non appena i manifestanti attraversarono il ponte, iniziò la mattanza a calci, pugni e manganelli: i feriti alla fine furono 67, compresa una ragazzina di 14 anni e l’uomo che guidava la marcia, John Lewis, che per tutta la vita portò i segni di quel pestaggio.

Avvenuto sotto gli occhi delle telecamere e trasmesso dall’emittente Abc interrompendo il programma in onda, quell’episodio, per gli americani, divenne subito il “Bloody Sunday” (“La domenica di sangue”).

Il ruolo di Martin Luther King

Nei giorni successivi, la comunità nera decise di organizzare una seconda marcia, alla cui testa ci sarebbe stato Martin Luther King, accompagnato anche da diversi attivisti bianchi. Le autorità locali però non diedero il permesso e King, che il 9 marzo, arrivato a metà del ponte decise di tornare indietro (da lì il nome “Turnaround Tuesday”, “Il martedì dell’inversione di marcia”). King e la comunità afroamericana però non si erano arresi, stavano solo prendendo tempo in vista di un permesso, infine arrivato tra mille polemiche. Negli stessi giorni il Partito democratico presentò in Senato, a Washington, il Voting Rights Act, la legge che avrebbe finalmente esteso il diritto di voto a tutti.


R. Scarcella
Uno dei murales che ricorda le marce del 1965

‘Per quanto ancora? Non molto’

Il 21 marzo del 1965 la marcia da Selma a Montgomery, capitale dello Stato dell’Alabama, poté finalmente partire. I partecipanti erano ottomila. Tra soldati, guardia nazionale e uomini dell’Fbi, erano quasi altrettanti quelli che li guardavano a vista. Quando, dopo quattro giorni di marcia, King arrivò a destinazione, si erano unite a lui 25mila persone di ogni razza e religione. A Montgomery, il reverendo tenne uno dei suoi discorsi più celebri, intitolato “How long? Not long” (“Per quanto? Non per molto”). Parole ispirate, commoventi, che si chiudono così: “Per quanto ancora? Non per molto, perché l’arco dell’universo morale è lungo, ma tende verso la giustizia”. King, che verrà ucciso tre anni dopo a Memphis, farà comunque in tempo a vedere la firma sul Voting Rights Act da parte del presidente Lyndon Johnson, avvenuta il 6 agosto del 1965, a soli cinque mesi dalla prima delle tre marce.

Dal KKK a Obama

Cinquant’anni dopo, sull’Edmund Pettus Bridge è salito Barack Obama, il primo presidente nero degli Stati Uniti. Con lui c’era John Lewis, l’organizzatore della prima marcia quello malmenato dai poliziotti diventato membro del Congresso Usa (come lo era stato prima di lui, per ironia della sorte, Edmund Pettus).


Keystone
Il discorso di Barack Obama sul ponte nel 2015

Nell’estate del 2020, la scrittrice e attivista Caroline Randall Williams, pronipote di pelle nera di Edmund Pettus, propose di cambiare il nome al ponte di Selma e chiamarlo John Lewis (che era appena deceduto). A chi le rispose che così si vanno a dimenticare i monumenti alla storia dei Confederati, ha risposto: “Volete un monumento Confederato? Io sono un monumento confederato, pronipote di una schiava di colore e di un uomo bianco. Il mio bisnonno Will chiama Edmund Pettus papà. Il sangue confederato scorre tra le mie vene. E io sono orgogliosa delle mie origine nere e dei miei avi che hanno resistito alla schiavitù. Ma il rispetto e l’orgoglio per i nostri antenati non deve essere incondizionato”.

Da quel momento si sono mossi in molti e anche il Senato dell’Alabama fece un primo passo in quel senso, nel 2022. Ma il nome è ancora lì. Dall’altra parte del fiume, dove la marcia partì, restano un piccolo museo, un negozio di souvenir, un parco-memoriale semiabbandonato e alcuni murales raffiguranti Martin Luther King, John Lewis, Barack Obama e le sagome di chi - a rischio della propria vita - attraversò nel 1965 quel ponte. Su una delle saracinesche dello stabile del museo c’è anche una scritta: “L’istruzione è la chiave per controllare il nostro destino”. Non si trova nemmeno un caffè aperto in tutta Selma, ma c’è di meglio: un ponte da attraversare e una storia di ostinazione e speranze ripagate da imparare.


R. Scarcella
‘L’istruzione è la chiave per controllare il proprio destino’