L'assassinio del 35° presidente degli Usa, il 22 novembre 1963, ha segnato un'epoca e un'intera generazione di artisti e romanzieri
Il riverbero del sole sulla neve gli impediva di leggere: le righe battute a macchina sembravano ritirarsi, inghiottite da un bianco terrificante, e a nulla era servito il cappello in lana di pecora offertogli da Lyndon Johnson per ripararsi gli occhi dalla luce. Ma quella mattina del 20 gennaio 1961, a Washington, a complicare le cose si era messo anche il vento, che soffiava forte e gelido, scompaginando i fogli su cui l’87enne Robert Frost aveva scritto i versi che tentava faticosamente di leggere all’insediamento di JFK alla Casa Bianca. Jackie O’ e il marito si guardavano straniti: era stata una buona idea spezzare una consolidata liturgia invitando alla cerimonia, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, un ‘inaugural poet’? Frost non si perse d’animo, ripiegando infine su una poesia che ricordava a memoria, ‘The gift outright’, sulla “terra che a ovest s’inverava in forma vaga / ma ancora senza storia, né arte, bruta”. Il componimento che aveva composto per l’occasione, ‘Dedication’, terminava preannunciando “un’età dell’oro di poesia e potere”: previsione sbagliata, perché l’omicidio di Dallas avrebbe schiuso all’America le porte dell’inquietudine e della paura, costringendola a guardarsi allo specchio per riconoscere di non essere, come invece pretendeva, diversa dagli altri.
Il corso della Storia, che l’Occidente dominava con il pensiero e con la mano, navigando in acque tranquille, avrebbe preso una direzione imprevedibile, su cui da allora in poi si sarebbe avventurato a bordo non più del Nautilus di Verne, ma del battello ebbro di Rimbaud, come avrebbe chiosato Roland Barthes per sottolineare la precarietà delle tradizionali categorie conoscitive e la fragilità delle fondamenta da cui si scrutava con fiducia il futuro. Uno spartiacque, tra l’epoca dell’innocenza e l’età della disillusione, che era anche un gorgo, la scoperta del tragico, un pozzo nero che traboccava di incertezza e smarrimento.
“Tu pensa a due linee parallele.”, scrive Don DeLillo in ‘Libra’, “Una è la vita di Lee H. Oswald. L’altra è il complotto per assassinare il presidente. Che cosa congiunge lo spazio fra le due linee? Che cosa rende inevitabile l’incontro? C’è una terza linea. Esce dai sogni, dalle visioni, dalle intuizioni, dalle preghiere, dagli strati profondi della personalità. Non è generata da causa ed effetto come le altre due. È una linea che interseca la casualità, attraversa il tempo. Non ha una storia che possiamo riconoscere o capire. Ma impone una congiunzione. Mette un uomo sulla strada del suo destino”. E non è, appunto, un destino instradabile entro le coordinate rassicuranti di prima, entro le magnifiche sorti e progressive nel cui sogno ingenuamente ci si cullava. Sono uomini dentro piccole stanze, vite che occupano un’ombra da cui si affannano a voler uscire, minuscole tessere di un mosaico dal disegno incomprensibile, frammenti di una trama misteriosa che non si riesce a comporre, come burattini indotti ad agire da una necessità superiore, perché “le inopinabili catastrofi”, riflette il dottor Ingravallo nel ‘Pasticciaccio’ di Gadda, “non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti”.
James Ellroy in ‘American Tabloid’ si assume il compito di sbrogliare la matassa partendo da alcuni punti fermi esposti con spiazzante brutalità: l’America in realtà non è mai stata innocente; la nostalgia è bugiarda, perché ci propina un passato che non è mai esistito, e la sua funzione consolatoria poggia dunque sul nulla; “Jack Kennedy è un dongiovanni liberale stagionato con i valori morali di un segugio da punta”, ma continuiamo a considerarlo un mito perché gli esseri umani di ogni latitudine ne hanno bisogno, di miti a cui aggrapparsi, dimenticando che, proprio in quanto miti, nulla hanno a che fare con la realtà. Ellroy sembra divertirsi a demolire, sin dall’incipit del romanzo (“Si faceva sempre alla luce del televisore”) le ipocrisie del sogno americano, indagando le correnti sotterranee, dai servizi segreti alla mafia, dai castristi al Ku Klux Klan, avrebbero complottato per la caduta di una presidenza dalle molte ombre, mai abbastanza indagate.
Una concatenazione di eventi è alla base anche di ‘22/11/63’, in cui Stephen King, derogando alle abituali atmosfere horror ma non alla vocazione di indagare le profondità del subconscio americano, non ragiona sull’assassinio di JFK come approdo, ma come punto di partenza, inserendo nel romanzo storico elementi del fantastico. La scoperta di un varco spazio-temporale permetterebbe di correggere la storia, riportandola al tranquillo binario su cui sembrava correre: “Se hai mai voluto cambiare le cose, Jake, questa è la tua occasione: ferma Oswald quel 22 novembre 1963. Salverai Kennedy. Salverai suo fratello Bob, e Martin Luther King; bloccherai le rivolte razziali. E forse eviterai anche la guerra in Vietnam. Basta che passi per la ‘buca del coniglio’, sul retro della tavola calda. Non importa quante volte l’attraversi: uscirai sempre sul piazzale di una fabbrica tessile di Lisbon Falls, ore 11.58 del 9 settembre 1958. E non importa quanto a lungo resti in quel passato: al ritorno, nel tuo presente saranno trascorsi due minuti”. L’evidente riferimento ai luoghi di ‘It’ è lo spunto per una riflessione sull’immutabilità del passato e su un destino che ci sfugge sempre, perché non ha obblighi da rispettare né direzioni da prendere.
Non resta che fare i conti con l’inferno dei viventi, quello che abitiamo tutti i giorni, e accettare l’esortazione di Italo Calvino: “Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Ed è per questo che Bob Dylan, riflettendo nel brano ‘Murder Most Foul’ (citazione dall’‘Amleto’ di Shakespeare) sul presidente “condotto al macello come un agnello da sacrificio”, invoca il disc jockey Wolfman Jack perché salvi l’America trasmettendo un lungo elenco di canzoni, che sono quanto di meglio la cultura popolare statunitense abbia prodotto, una tradizione che offra, nello smarrimento collettivo e nella stasi delle coscienze, punti di riferimento quando “l’anima della nazione è stata lacerata”. Il brano è del 2020, segno che la ferita, a distanza di decenni, sanguina ancora.
«Ognuno ha nelle vene la stessa percentuale di sale che c’è nell’oceano. E abbiamo il sale anche nel sudore e nelle lacrime. Siamo legati all’oceano. E quando torniamo al mare, per competere o anche solo per assistere a una regata, torniamo al posto da cui veniamo».
Le parole che John Fitzgerald Kennedy scelse di pronunciare al taglio del nastro di una lontana edizione dell’America’s Cup stanno a testimoniare il suo viscerale amore per la vela e il profondo legame che aveva con questo sport. Del resto, aveva solo 15 anni quando dai genitori ricevette in dono la sua prima barca, uno scafo di 8 metri che volle battezzare Victura (destinata a vincere) quasi a voler in quel modo ipotecare i successi che avrebbe colto in seguito in politica e nella vita privata.
Non era certo un regalo banale, la vela non è sport proletario, ma il vecchio senatore Kennedy – con mezzi leciti e illeciti – aveva ormai fatto un monte di soldi, ed era normale che i suoi figli crescessero con tutti gli agi destinati alle classi dominanti. La ricchezza, a ogni modo, non aveva del tutto cancellato il passato di questa famiglia di umile origine irlandese, e dunque i rampolli ebbero comunque libero accesso anche alle discipline sportive più popolari, come ad esempio il football americano e il baseball, sport plebeo per antonomasia.
Travolgente fu infatti la passione che il futuro presidente degli Stati Uniti ebbe in gioventù per la palla ovale: a football giocò con un certo successo in ogni ordine di scuola, compresa l’Università di Harvard. E il fastidiosissimo e invalidante mal di schiena che lo tormentò fino al termine della sua breve vita era figlio di una lesione spinale rimediata durante una partita disputata proprio nei suoi anni accademici.
Un danno che oltretutto, unito ai postumi delle ferite rimediate in guerra quando la sua motosilurante fu affondata dai giapponesi, nella vita borghese lo costrinse poi a rinunciare agli sport di contatto, finendo inevitabilmente per privilegiare discipline più aristocratiche come il tennis, lo sci nautico e il golf, altro sport in cui eccelleva ai tempi di Harvard: più volte fu infatti capitano della rappresentativa che ingaggiava accaniti duelli contro i rivali di Yale, altro prestigiosissimo ateneo del New England.
Pare infatti che la mattina in cui ci fu l’invasione della Baia dei Porci lui se ne stesse ad affinare lo swing sui green del Burning Tree Club, esclusivo circolo con sede a Bethesda, a due passi da Washington, frequentato da molti senatori ed ex presidenti. Per mostrarsi vicino alla gente, dunque ai suoi potenziali elettori, JFK si affidò soprattutto al baseball, l’autentico passatempo nazionale americano. Essendo originario del Massachusetts, fu sempre tifoso dei Boston Red Sox, alle cui partite presenziava regolarmente all’inizio della sua carriera politica, quando ambiva dapprima alla Camera dei rappresentanti e poi al Senato: sapeva, come molti suoi colleghi d’ogni epoca, che gli stadi sono inesauribili miniere di voti. Più avanti, quando divenne presidente, si avvicinò invece ai Senators, squadra della capitale per la quale era solito lanciare – simbolicamente – la prima palla all’inizio della nuova stagione agonistica.
Kennedy però non usò lo sport soltanto come veicolo pubblicitario per i suoi interessi di carriera: credeva davvero – oltre che nei benefici di una vita sana – nell’utilità igienica e sociale della pratica sportiva, che riteneva imprescindibile come base di una nazione forte. Quando all’inizio degli anni Cinquanta aveva saputo del preoccupante aumento degli inabili al servizio registrato durante la campagna di reclutamento per la Guerra di Corea – risultato di una società sempre più consumatrice e pigra – decise che nei suoi programmi politici avrebbe sempre dato ampio spazio al sostegno e alla divulgazione delle attività fisiche, e mantenne sempre le promesse: la diffusione capillare di impianti sportivi anche nei quartieri più disagiati dell’intero Paese avvenne proprio sotto il suo impulso.
Kennedy sapeva inoltre che la Guerra fredda contro i sovietici si combatteva pure nelle palestre, nelle piscine, sulle piste di atletica, e dunque fece in modo di destinare risorse sempre maggiori alla formazione di tecnici in grado di far crescere generazioni di americani capaci di competere coi migliori atleti del Blocco comunista.
A preoccuparlo fu pure una pericolosa deriva di cui i suoi connazionali stavano diventando vittime, e cioè la tendenza a divenire – invece che atleti in prima persona – spettatori passivi di eventi sportivi, dapprima alla radio e più tardi soprattutto davanti allo schermo della tv, e dunque non mancava mai di consigliare a tutti di andare allo stadio a vedere le partite, magari in bici o a piedi, invece di farlo da casa, stravaccati sul divano. Dei pregi che lo sport e i giochi all’aperto si portano appresso il presidente ogni tanto addirittura scriveva di proprio pugno: e lo faceva, per raggiungere il pubblico più vasto possibile, nientemeno che sulle colonne di ‘Sports Illustrated’, autentica Bibbia per gli americani appassionati di ogni disciplina agonistica.
Alla base delle passioni sportive del 35° Potus, al di là del tornaconto politico, c’era l’educazione ricevuta fin dall’infanzia, trascorsa in una nazione giovane che della vita all’aria aperta e della sana competizione aveva fatto una specie di dogma, e in seno a una famiglia che queste idee le condivideva pienamente: valori che lui stesso, in seguito, riuscì a tramandare anche alle generazioni successive del vastissimo clan Kennedy, fatto di innumerevoli fratelli, cognati, cugini e dunque di una quantità ancor più sterminata di nipoti.
I giornalisti che avevano il privilegio di recarsi in visita nelle residenze di famiglia – per poi render conto dell’esperienza ai propri lettori – rimanevano impressionati dalla varietà delle attività sportive che vi si praticavano, e dall’intensità con cui tutti vi si dedicavano. E, non di rado, gli stessi reporter venivano coinvolti nelle sfide, e spesso uscivano da quei tornei infiniti – in pratica le Olimpiadi private dei Kennedy – visibilmente ammaccati. La maggior parte di questi confronti al timone di barche a vela, nel flag football, a volley, a nuoto, nel croquet, nel softball e naturalmente a tennis si svolgevano sui 24mila metri quadrati del parco della reggia estiva di Hyannis Port: l’attività muscolare laggiù era così intensa che i frequentatori avevano finito per chiamarla – spostando un’unica lettera – Hyanni Sport.