Il Teatro alla Scala ha aperto la stagione 2024/25 con ‘La forza del destino’ di Giuseppe Verdi. Si replica fino al 2 gennaio 2025
Dopo mille recensioni e cronache della serata inaugurale del 7 dicembre al Teatro alla Scala su quotidiani e riviste online, dopo che i melomani si sono scatenati a scrivere tutto e il contrario di tutto sui social, si può ragionevolmente sostenere che questo nuovo allestimento de ‘La forza del destino’ di Giuseppe Verdi, sotto la bacchetta di Riccardo Chailly, sia stato in larga parte apprezzato da critica e pubblico, con qualche eccezione, come sempre succede. Chi invece come me ha visto la ‘prima’ su grande schermo (al cinema Lux di Massagno, nella serata-evento ormai tradizionale organizzata dalla Rsi) e ha assistito in teatro alla replica del 10 dicembre, ha visto e sentito qualcosa di diverso: uno spettacolo cinematografico prima, prezioso per alcuni dettagli, e una rappresentazione teatrale ‘normale’ poi, senza le tensioni, lo stress, le distrazioni e il gran bazar di una prima importante, la più importante sulla scena italiana. Innanzi tutto, l’opera.
‘La forza del destino’, tratta dal dramma spagnolo ‘Don Alvaro o la fuerza del sino’ di Angel de Saavedra duca di Rivas, ma contenente nel terzo atto versi da ‘L’accampamento di Wallenstein’ di Schiller nella traduzione di Andrea Maffei, è considerata una delle opere più problematiche di Verdi e Piave-Ghislanzoni, anche a causa di una drammaturgia frastagliata, con momenti irrisolti e nebulosi e una sorprendente varietà di stili. Una vicenda di amore impossibile tra Spagna e Italia, su uno sfondo di guerra, un destino infelice che perseguita i due amanti Leonora e Alvaro incapaci di unirsi a causa dell’uccisione accidentale del padre di lei per mano di lui e della conseguente sete di vendetta del fratello di lei Don Carlo, che dà la caccia ai due amanti per ucciderli e ci riuscirà. Anche se poi Verdi cambia il finale scritto per San Pietroburgo nel 1862 e alleggerisce la vicenda di un morto per la prima rappresentazione alla Scala nel 1869. In mezzo alla tragedia, un percorso di redenzione (tema caro al tardo romanticismo che trova in Wagner il suo più ardente paladino, ma da cui sono toccati in diversa maniera sia Verdi che Puccini) investe principalmente Leonora, i cui tormenti si affievoliscono nella pace di un eremo solitario accudito da monaci, sotto l’ala protettiva del Padre guardiano, degno sostituto della figura paterna. Non mancano personaggi e momenti comici o brillanti per alleggerire la cupa vicenda su cui grava la cappa di una religiosità penitenziale e provvidenziale, probabile influsso di Manzoni su Verdi, e di un mondo in subbuglio a causa della guerra.
E non poteva essere che questo, il tema prescelto per l’allestimento scaligero dal regista Leo Muscato, che decide di mostrarci non una sola guerra ma una sfilza di guerre in diversi momenti storici, per cui abbiamo un primo atto settecentesco fedele al libretto (guerra di successione austriaca), un secondo atto ottocentesco (guerre di indipendenza), un terzo novecentesco (prima guerra mondiale) e un quarto atto contemporaneo, senza riferimenti precisi a questo o quel conflitto in corso, tanto la guerra è uguale sempre e ovunque, con il suo carico di morti e di dolore. Nelle numerose e variegate scene corali dell’opera, il popolo di venditori, mulattieri, vivandiere, pellegrini previsto da Verdi diventa nelle mani del regista un coro di soldati in uniforme senza distinzioni, tranne nell’ultimo atto in cui l’esercito è chiaramente distinto dal popolo affamato. In realtà è Verdi, non il regista, a proporre un discorso articolato sulla guerra. La guerra che Verdi mostra ne ‘La forza del destino’ contiene molteplici aspetti, non solo le sofferenze e i patimenti della povera gente, ma anche l’euforia e l’esaltazione dell’andare in guerra. ‘E’ bella la guerra, evviva la guerra!’ canta Preziosilla, giovane attivista che esorta il popolo ad arruolarsi con l’obiettivo di trarre benefici e ricchezza dalla guerra stessa. La guerra come opportunità economica per uscire dalla miseria, un tema che ci porta dritti nientemeno che a Brecht e al suo dramma ‘Madre Coraggio e i suoi figli’, tema anticipato da personaggi quali appunto Preziosilla e il venditore ambulante Trabuco.
Non solo. È anche la guerra come liberazione dal ‘barbaro invasore’. Verdi, dal 1861 deputato al parlamento italiano, compone la sua opera nel momento in cui si fa l’unità d’Italia, costata lacrime e sangue per decenni attraverso due guerre di indipendenza, la spedizione dei Mille e l’annessione del Regno delle Due Sicilie. Non può dunque mancare una componente autoassolutoria e liberatoria in questo ‘viva la guerra!’ riferito nel libretto a un episodio della guerra di successione austriaca (1740-48), che vedrà gli austriaci battuti a Velletri il 10 agosto 1744 dalle truppe ispano-napoletane, guidate dal re di Napoli, Carlo di Borbone.
Ma via via che il dramma si snoda, mostra anche l’aspetto più terribile della guerra, la disillusione del popolo dei ‘tetti e campi devastati’, fino al riconoscimento che “nella guerra è la follia, che dee il campo rallegrar, viva viva la pazzia, che qui sola ha da regnar!”. Follia e pazzia regnano ormai nel campo militare, uniche vie per risollevare il morale dei soldati. Il regista manda a morte anche Preziosilla, che ritroveremo cadavere in un sacco di plastica. Ed è proprio lei a chiudere il terzo atto con la celebre quanto discussa esortazione ‘Rataplan’, rullo di tamburi che incita alla battaglia.
Brescia e Amisano
Alexander Vinogradov, Anna Netrebko e Brian Jadge
Nel primo atto conosciamo i due infelici amanti, Leonora e Alvaro, e il regista inserisce anche il fratello di lei Carlo come testimone muto del dialogo tra padre e figlia. Leonora è Anna Netrebko, interprete smagliante di un ruolo da lei poco amato ma nel quale riesce a trasmettere emozioni profonde più di qualsiasi altro. E’ attraverso la sua voce pastosa e brunita che passa il dramma di un amore non vissuto, di un rimorso malcelato, di una fame di redenzione che si realizza finalmente nella pace di un aldilà sognato e agognato. Diversa la questione per l’Alvaro di Brian Jagde che sostituisce Jonas Kaufmann resosi indisponibile per motivi di famiglia. Forse in questo momento Kaufmann non avrebbe saputo offrire una prestazione vocale adeguata al personaggio, ma certamente le sue capacità interpretative e attoriali non sarebbero venute meno (come abbiamo visto nel quarto atto di ‘Manon Lescaut’ con Netrebko, nel concerto pucciniano scaligero del 29 novembre) se è vero che, come scrive Verdi, “nella ‘Forza del destino’ non è necessario sapere fare dei solfeggi, ma bisogna aver dell’anima…”. Il tenore statunitense Brian Jagde ha voce vigorosa e bel piglio, ma deve lavorare sull’espressività, sulle intenzioni, sulle nuances per dare corpo alle passioni che si susseguono e si combattono nell’animo del protagonista. Non delude mai per grande professionalità il baritono Ludovic Tézier nel ruolo monolitico di Don Carlo, fratello di Leonora e indefesso vendicatore del padre. Tuttavia nel duetto del quarto atto tra Alvaro e Carlo, così drammaticamente intenso, manca da parte di entrambi quel passaggio di emozioni che lo caratterizza attraverso la figura di un Alvaro divenuto padre Raffaele e ammansito dalla veste sacerdotale. Il marchese di Calatrava è interpretato da Fabrizio Beggi, padre severo e sdegnoso nei confronti del candidato ‘mulatto’ alla mano della figlia (Alvaro è l’erede al trono degli Incas, definito spregiativamente ‘mulatto’ o ‘indian selvaggio’, per cui esiste nell’opera anche la componente razziale).
Assai particolare è la briosa Preziosilla del mezzosoprano Vasilisa Berzhanskaya, non più zingara ma simpatica opportunista che si arrangia per vivere, e invade la scena col suo cestone di capelli rossi e la voce rigogliosa, un sorriso malizioso nella cupezza dei devastanti paesaggi di guerra restituiti dalla elegante scenografia di Federica Parolini – poco notato dalla critica, ma bellissimo il cilindro modulabile che la sovrasta- e dai costumi di Silvia Aymonino. Le figure fratesche di manzoniana memoria sono l’efficace Padre guardiano di Alexander Vinogradov e il Fra Melitone di Marco Filippo Romano, personaggio meno comico del solito, forse a causa della desolazione che lo circonda.
La sera del 10 dicembre Riccardo Chailly ha diretto la sua orchestra splendidamente, la celebre Sinfonia in particolare si è dispiegata in tutta la potenza e l’urgenza necessarie nel tema che sembra rincorrere Leonora per l’intera opera e spingerla verso un destino implacabile, con punte di delicatezza quasi trascendente laddove Verdi evoca il mistero della provvidenza divina. Una esecuzione da brivido che ha trascinato il pubblico in lunghi calorosi applausi. Indimenticabile anche la prova del coro, vero protagonista dell’opera, preparato da Alberto Malazzi. ‘La forza del destino’ si replica al Teatro alla Scala fino al 2 gennaio 2025.