Le corde della sua chitarra paiono vivere di vita propria, per una celebrazione della musica andata in scena nello Stelio Molo delle grandi occasioni
Il concerto del brasiliano Egberto Gismonti, che chiude alla grande il Festival Chitarre dal Mondo all’Auditorio Stelio Molo della Rsi a Lugano, inizia con una bella sorpresa: anziché imbarcarsi in un evento solistico, come ci si aspettava, il Nostro si presenta con un altro chitarrista, il quarantaduenne Daniel Murray, a sua volta brasiliano verace a dispetto del patronimico, testa di ponte del variegato edificio sacro carioca ed esploratore di lungo corso dell’universo Gismontiano. In diretta da Rio de Janeiro e catapultato miracolosamente a Lugano, Murray è una piacevolissima invasione di campo che conversa in maniera fitta e puntuale col Grande Maestro, distillandosi anche eleganti spazi solistici.
Egberto Gismonti, nato 76 anni fa da un interessante melting pot siculo/libanese, inizia a suonare il pianoforte a sei anni e, dopo quindici anni di studi classici, si trasferisce a Parigi per approfondire con Nadia Boulanger e Jean Barraqué. Tornato in Brasile, vive con gli indios Xingù, dei quali coglie e interpreta la vivace musicalità. La sua arte, influenzata da Ravel, jazz, choro, bossa nova, rock e Villa-Lobos, riflette l’universo multiforme del Brasile. Negli anni 70, sperimenta e collabora con Pedro Aznar, Charlie Haden, Naná Vasconcelos e Hermeto Pascoal. Geniale esploratore di tecniche chitarristiche non convenzionali, è inventore di chitarre dal numero di corde variabile (a Lugano suona una splendida 10-string classica) che gli aprono un range espanso di potenzialità.
L’inizio del set è agile e scattante con un choro che mette in evidenza i fondamentali e l’interplay delizioso e infinitesimale che durerà per tutta la performance, rastremandosi fino a sublimare in pura telepatia, un gioco di opposti che si congiungono e allontanano in un respiro profondo. Lo spettacolo prende così il volo e si dipana attraverso una serie di tracce che alternano momenti brillanti a meditazioni profonde, eseguite nel bellissimo auditorio con raffinatezza e misura. La tecnica sopraffina dei due musicisti si guarda bene dal cadere nel funambolismo e si mette al puro servizio della veicolazione della voce che permea uno storytelling ricco, dinamico e funzionalmente dialogico, un nascondino giocoso dove il corpo dell’attrezzeria musicale si presta a tutti gli utilizzi, includendone l’intera tridimensionalità in un’edificazione musicale solida e trasparente.
Gismonti si esibisce in un solitario momento pianistico, intermezzo dedicato ai grandi compositori brasiliani Antonio Carlos Jobim e Heitor Villa-Lobos. La lunga, indomabile chioma del musicista fiammeggia sotto i riflettori seguendone i fluidi movimenti. Il jobimiano ‘Retrato em blanco e preto’ sembra sposare Chopin e saudade in un matrimonio cosmico, giocato su pianissimi suggestivi, toccanti e sfocianti in un flusso ipnotico foriero di una quiete sognante e spirituale.
Il compagno di cordata torna sul palco e i due tornano ad arrampicare insieme pareti scoscese dove Murray si produce in un cesellatissimo lavoro rumoristico, fino a ottenere campo libero per galoppare verso una lucida cogitazione, note cristalline come gemme lucenti nelle profondità della terra. Come equilibristi su una corda invisibile, i due musicisti si muovono con grazia e precisione accendendo e rappresentando un luminoso percorso sonoro.
L’intera esibizione è un caleidoscopio di vibrazioni, ogni suono una pennellata su una tela musicale che si sviluppa e si trasforma davanti agli spettatori. Le corde della chitarra di Gismonti sembrano vivere di vita propria, foresta tropicale pulsante e vitale. Le armonie complesse e i ritmi incalzanti si mescolano nel vortice di un viaggio attraverso tempo e spazio, evocando cieli stellati e paesaggi onirici dove ogni suono è una stella cadente e ogni melodia un desiderio sussurrato allo spazio: avventure senza parole, leggende di antiche civiltà, miti e terre lontane.
Il finale è un’apoteosi di suoni e silenzi, una sinfonia concertante salutata con calore dagli ascoltatori. Gismonti e Murray sembrano consapevoli di aver regalato una serata memorabile e dalla vena pressoché inesauribile, un’esperienza unica che testimonia una grandezza artistica mutevole e cogente, un samba di anime consonanti, un colloquio che attraversa epoche e stili, sintetizzando tradizione e innovazione, lingue antiche e future, orditura di storie eteree modellate da una scansione fluida e naturale.
Le dita del Magister danzano sulle corde, schegge incorporee in una prateria sonora, avanzano in territori inesplorati a caccia di nuances mentre Murray, con tecnica ineccepibile e grande sensibilità, completa il quadro con tocchi di colore e accenti che rendono ogni pezzo una miniatura ricchissima. In ogni passaggio si percepiscono la profondità e la vastità degli orizzonti musicali brasiliani, le melodie sono viaggi astrali e gli accordi una scoperta di continenti alieni, omaggio alla ricchezza culturale del loro immenso paese, tributo alle radici musicali che nutrono la loro arte.
L’evento si conclude con un bis che lascia il pubblico sospeso, un ultimo regalo di note ed emozioni che risuonano nel cuore e nella mente molto dopo che l’ultimo plauso si è spento. È una celebrazione della musica in tutte le sue forme e varianti, una festa per l’anima che invita alla riflessione e alla gioia.