L'intervista

Letizia Gambi, swing e melodia tra Napoli e la Grande Mela

‘Una Napoletana a New York’ è spettacolo che combina radici partenopee con il jazz afroamericano. Sabato 16 novembre al Sociale per il Jazz Cat Club

‘Il jazz non è solo un genere musicale, ma è l’essenza di un popolo’
13 novembre 2024
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Pupilla del celebre batterista e produttore statunitense Lenny White, ha ricevuto le lodi anche di Sting. Sabato alle 20.45 al Teatro Sociale di Bellinzona, ospite del Jazz Cat Club, Letizia Gambi presenta lo spettacolo-concerto ‘Una Napoletana a New York’. Nativa di Napoli, cresciuta in Lombardia, da quasi dieci anni trasferitasi negli Stati Uniti, la talentuosa e carismatica cantante combina le proprie radici partenopee-italiane con il sound del jazz afroamericano. A Bellinzona, Gambi – voce e percussioni – si presenta con Elisabetta Serio al pianoforte e direzione musicale, Giovanna Famulari al violoncello, Ilaria Capalbo al contrabbasso ed Elisabetta Saviano alla batteria.

Letizia Gambi, come ti sei scoperta cantante jazz?

Da ragazza, studiando danza, teatro e musica ho capito che cantare era la cosa che mi veniva più difficile, ma che mi emozionava di più. Quindi, da buona ariete, ho deciso che avrei affrontato il blocco che avevo nel canto per dimostrare a me stessa che potevo fare anche quello. Mio padre poi è un amante del jazz e collezionava dischi sin da giovanissimo, ma non immaginavo che sarei stata rapita da quel mondo. Poi un giorno in un’intervista sentii una cantante famosa dire che solo chi canta jazz può cantare qualsiasi cosa, in qualsiasi situazione, perché sviluppa le doti dell'improvvisazione e dell’interazione. Mi colpì molto, così decisi di voler studiare canto jazz. Mi presentai all'audizione alla Scuola Civica di Jazz di Milano, portai un pezzo da un musical, ‘Cabaret’ di Liza Minelli, e mi presero!

Sei nata a Napoli ma sei cresciuta a Como, poi Milano e oggi vivi negli Stati Uniti. Quanto profonde sono le tue radici napoletane?

Mi considero napoletana al cento per cento. Sono cresciuta in una grande famiglia, molto unita, con cui si passavano le festività a cantare, suonare e mettere in scena veri e propri show, nei quali ognuno aveva una parte, grandi e piccini. Facevamo le prove e c'era una regia severa e attenta, quella di mio zio Gennaro, tenore professionista e professore di arte scenica, che organizzava in modo impeccabile le nostre esibizioni! Con mio nonno al mandolino, chi al pianoforte e alla chitarra, mio zio e mia madre alla voce (e mia madre ha una voce pazzesca) e tutti gli altri ai cori, ho imparato l’intero repertorio della canzone napoletana.

Nel 2009 al Blue Note di Milano incontri Lenny White, al quale racconti del tuo desiderio di fondere le tue radici e le tue influenze musicali napoletane col jazz. Per te che cosa vuol dire far incontrare queste due culture?

Significa condividere prima di tutto la loro storia e il loro cuore. Con Lenny lo scambio musicale e culturale è stato molto intenso. Ho lavorato molto affinché potesse capire meglio le mie radici, le influenze che attraversano la musica napoletana e il mio dialetto. Gli ho spiegato che volevo rimanere autentica nella mia musica e non essere una delle tante cantanti bianche, europee, che vogliono fare jazz come gli americani. Ho sempre voluto essere credibile e penso che la credibilità passi dal proprio sangue, che non mente mai. Per questo ho tradotto in inglese alcuni brani della tradizione napoletana e li ho portati da White. Ho scoperto che avendo studiato in una scuola italiana, ignoravo molti aspetti del jazz e ho imparato tantissimo grazie a lui e ai musicisti che ho incontrato in seguito. Ho studiato con lui per anni, anche via Skype, per ore e ore e tutt'oggi componiamo, arrangiamo e scriviamo insieme, e non smetto mai di imparare.

Che cosa hanno in comune jazz e musica napoletana?

Sono due mondi lontani che però si somigliano in alcuni aspetti. Una cosa che ha colpito Lenny è la ritmica delle tammorre e la scala napoletana, eredità della dominazione dei Mori, ma anche la musicalità del dialetto napoletano, che prende dallo spagnolo e dal francese oltre che dall'arabo, che ha molto più swing dell'italiano e si presta ritmicamente al jazz. Le ritmiche del nord Africa sono la cosa più black che le due culture hanno in comune. E anche la discriminazione, di cui hanno sofferto, ovviamente in modo diverso e più o meno drammatico. Noi napoletani non siamo stati sempre i benvenuti al nord. Inconsapevolmente ho aperto una breccia nei cuori dei miei amici neri quando ho raccontato che a Como, a scuola, la maestra mi chiamava “terroncella” e mi bullizzava davanti a tutti. Per me è stato difficile crescere in quel contesto ed è anche per questo che ho legato ancora di più con le mie radici, ascoltando Pino Daniele giorno e notte.

In che cosa invece divergono?

Noi abbiamo la sesta napoletana e loro hanno la scala blues, entrambe esprimono sentimenti forti, a volte dolore, sofferenza, a volte protesta, sono entrambe affascinanti e diverse. Noi abbiamo la melodia che fa da padrona, loro hanno lo swing, le terzine e l'improvvisazione che sono uniche! Il jazz nasce per sopravvivere, prima nei campi di lavoro, per comunicare in modo metaforico, per tramandare storie, per resistere a una condizione disumana di schiavitù e discriminazione che il popolo nero ha subito per secoli. Per questo ho un grandissimo rispetto per questa musica che non è solo un genere musicale, ma è l'essenza di un popolo.

Quello con Lenny è stato un incontro decisivo perché è lui che ti ha portata a registrare a New York due album da lui prodotti nel 2012 e nel 2016, con grandissimi nomi del jazz come Ron Carter, Chick Corea e Gato Barbieri, solo per citarne alcuni. Che cosa ti hanno insegnato questi grandi artisti?

L'umiltà, la serietà, e che la musica si divide in bella e brutta e il genere non conta. Che il jazz è un linguaggio con cui si possono affrontare tanti argomenti diversi. Ho imparato che si deve sempre arrivare alle prove prima di tutti. Visto che Ron Carter arriva prima di tutti, tu devi essere lì prima di Ron Carter! Ho imparato che la magia che incanta me quando ascolto il jazz è la stessa magia che incanta loro quando sentono una bella melodia italiana, e ne parlo proprio nel racconto-concerto che porterò a Bellinzona.

Per lo spettacolo di Bellinzona ti avvali di un gruppo di tue colleghe italiane con cui lavori regolarmente. Perché una band tutta al femminile?

Un po’ per caso, perché mi sono trovata molto bene con alcune di loro e ho deciso di mettere insieme un trio che poi è diventato quartetto e poi quintetto, e poi ho scoperto che quando siamo in scena tutte donne c'è una magia, una stima, una complicità che il pubblico percepisce chiaramente e apprezza tanto. E poi insieme in tour ci divertiamo un sacco!

Da oltre dieci anni convivi con un problema d’udito a un orecchio. Questo però non ti ha fatto desistere dal tuo proposito di buttarti nella musica. Come va oggi da questo punto di vista?

Durante il concerto parlo anche di questa cosa, che è ciò che ha cambiato in male e poi in bene la mia vita, e che in fondo mi ha portata dove sono oggi, una condizione che da handicap è diventata la mia sfida personale. A volte la vita ti mette davanti un'opportunità e tu devi decidere cosa fare... Io l'ho afferrata al volo. Nonostante tutto. Non ho mai recuperato l'udito e sono sorda completamente da un orecchio. Alcune giornate sono più difficili di altre, alcuni concerti più pesanti, ma sono felice e grata per tutto ciò che ho raccolto fino a oggi.

Che cosa speri si porti a casa il pubblico che assisterà al concerto?

Un ricordo piacevole, qualche ritornello da canticchiare prima di dormire e uno dei miei cd che saranno in vendita, con autografo!