La constatazione di chi ha dovuto fingere di star bene e l’auspicio di tornare. La stella del pop, la ‘sindrome della persona rigida’ e un film necessario
È ‘L’amour est un oiseau rebelle’, o ‘Habanera’, ma non è l’‘Incognito Tour 1989’. È Maria Callas che canta mentre a Parigi una graziosa 17enne un poco impacciata, sul palco di un Olympia ancora vuoto, emozionata s’inchina e ringrazia. “Il mio sogno è quello di essere una star internazionale, e di riuscire a cantare per tutta la vita”, dice Céline Dion, prima che il flashback diventi il passato recente delle arene straripanti e dei duecento milioni di dischi venduti nel mondo da una donna che ha girato la terra più volte “e in realtà non ho visto niente. È strano vero? È ciò che si dice ‘il prezzo da pagare’”.
Diretto da Irene Taylor (Premio del pubblico al Sundance Film Festival nel 2007 per l’opera prima ‘Hear and How’, storia di due genitori sordi che hanno cresciuto due figli che ci sentono), ‘I am: Céline Dion’ non è esattamente la biografia della Regina della Power ballad, “brano lento e melodico caratterizzato da sonorità dolci, toccanti ed evocative” (fonte: l’Enciclopedia digitale) da scegliersi tra ‘My Heart Will Go On’, ‘All By Myself’ e altre incisioni su ventisei album d’inediti e reinterpretazioni. O meglio, la biografia va e viene nel film, ma intervallata dai guai fisici che hanno costretto e costringono la Callas del pop (il Bizet dei titoli di testa è del tutto pertinente e Céline, della Divina indossa la collana regalatale dal defunto marito René) a uno stop forzato, dai tempi non quantificabili.
“Buongiorno a tutti. Mi spiace di averci messo tutto questo tempo per raggiungervi. Mi mancate tantissimo e non vedo l’ora di tornare sul palco per potervi parlare di persona. Come sapete sono sempre stata un libro aperto, prima non ero pronta per parlare, ma ora lo sono. Di recente mi è stato diagnosticato un disturbo neurologico molto raro chiamato sindrome della persona rigida, che colpisce circa una persona su un milione. Ogni giorno mi impegno col fisioterapista specializzato in medicina dello sport per recuperare la forza e poter tornare a esibirmi. Ma devo ammetterlo: è dura”. È l’8 dicembre del 2022 e l’artista canadese spiega via social i motivi dei concerti annullati. Il documentario ci mostra il making of di quel videomessaggio, giunto a ridimensionare di molto la notizia che “Céline Dion è in fin di vita”.
Tra gli interni della sua casa di Las Vegas e il deposito nel quale conserva con amore ogni momento della sua vita e della sua carriera, tra il ricco cassetto delle calze e un museale armadio delle scarpe (da cui un imprescindibile e autoironico trattato sul rapporto donna-scarpa), tra immagini d’archivio e momenti di pura intimità familiare, Céline Dion descrive la propria sindrome della persona rigida (Spr), malattia autoimmune di cui soffre dal 2008, diagnosticatale dieci anni più tardi. “Diciassette anni fa ebbi i primi laringospasmi. Di mattina, dopo un concerto, la mia voce si alzò di tono, quando invece quella di un qualsiasi cantante stanco cala, per questo va scaldata”. Da lì la drammatica sensazione di una voce non più controllabile, i soundcheck brevi per non sforzarla, comunque troppo corti per non rischiare di ‘romperla’. Fino alla diagnosi, ai farmaci, al Valium durante i concerti per rilassare i muscoli. Fino alla resa.
“Non è difficile fare un concerto, difficile è annullarlo”, dice la cantante col pensiero al suo pubblico, un rapporto di reciproca fedeltà che non ha pari tra le stelle del pop. Una platea di brave persone che nel critico musicale canadese Carl Wilson, tra i denigratori del fenomeno Dion, dieci anni fa chiamò una sorprendente revisione sul perché pensiamo di avere gusti musicali migliori degli altri, riabilitando la figura della connazionale – è vero, eccessiva, buffa, melodrammatica e con la lacrima facile, ma terribilmente sincera – e insieme l’approccio generale verso tutto ciò che in musica non ci piace (Carl Wilson, ‘Let’s Talk About Love: Why Other People Have Such Bad Taste’, più grezzamente tradotto in italiano con ‘Musica di merda’, Isbn Edizioni).
Nella persona affetta da Spr, il sistema immunitario attacca un enzima decisivo per regolare tensione e rilassamento muscolari. Senza l’enzima in questione, in particolare nelle situazioni di stress, i muscoli aumentano di tono e si contraggono progressivamente fino a irrigidirsi. Le emozioni, siano esse positive o negative, o determinati stimoli acustici, possono anch’essi provocare la rigidità dei muscoli. I sintomi della malattia, incurabile e progressiva, si aggravano col tempo. Gli spasmi interessano in modo preponderante tronco e addome, secondariamente gli arti superiori e inferiori. Per tutto il resto, i pazienti restano normali e l’esame della persona non fa altro che evidenziare ipertrofia e rigidità muscolare.
“Prima di essere colpita dalla Spr la mia voce era ciò che mi guidava nella vita, e io la seguivo”, dice Céline. “E mi andava bene così, perché mi faceva stare bene. Quando la voce ti porta gioia puoi pure lasciarle il comando della tua vita. Io non ho un ego così grande”. I media, la rete e la vita più di ogni altra forma di comunicazione ci hanno abituati a ogni sorta di dolore. Gli estratti promozionali da ‘I am: Céline Dion’ dati in pasto al pubblico, i frammenti della crisi – documentata almeno un paio di volte, una delle quali in modo pressoché completo –, fanno una certa impressione, ma hanno un corrispettivo forse più doloroso in chi non riesce più a gestire il dono che gli è stato dato, un dono coltivato, protetto, difeso. “Quando provo a respirare i miei polmoni funzionano, è quel che ho davanti ai miei polmoni che è rigido”: Céline accenna il ritornello di ‘I Wanna Know What Love Is’ e la voce le si rompe quasi subito. Con le lacrime agli occhi: “Questo è ciò che mi accade, e per me è molto difficile sentirlo e mostrarvelo. Non vorrei farlo sentire a nessuno...”.
‘I am: Céline Dion’ è la storia di chi si ritrova a dire “ero molto brava, credo”, la storia di chi vuole tornare in uno studio, davanti a un microfono, per capire se sia ancora in grado di essere Céline Dion. E lo fa, coi risultati che il film mostra. ‘I am: Céline Dion’ è “lo spettacolo deve continuare”, l’amara constatazione di chi ha dovuto fingere di stare bene, ma anche l’auspicio di poter tornare a cantare. ‘I am: Céline Dion’ è anche la storia di tutti coloro che non sono più padroni di quel talento che li ha resi unici, tanto in musica quanto in ogni altro campo delle umane esperienze.
Restando alla musica, gente come Keith Jarrett l’innovatore, colpito da due ictus consecutivi nel 2018: “Non so cosa mi porterà il futuro, quello che posso dire ora è che non sono più un pianista”, dichiarava in un’intervista del 2020. Con il lato sinistro parzialmente paralizzato, diceva di essersi dimenticato i motivi bebop più familiari e di sognare la musica, non potendo più suonarla. Nel giorno del suo 75esimo compleanno si era seduto di fronte al suo strumento per suonare contrappunti con la mano destra: “Fingevo di essere Bach con una mano sola”. Con grande ironia, che un po’ cozza con il burbero che minacciava di andarsene dal palco al primo flash o per un colpo di tosse di troppo, Jarrett diceva di sé: “Il non sparate sul pianista con me non vale più. Sono già stato sparato”.
Quanto a malattie degenerative, il mondo della musica non ascolta più da tempo un’altra delle sue grandi voci, che la musica può al massimo pensarla. È la 78enne Linda Ronstadt, cantautrice in epoca di cantautori passata alla storia per la voce limpida e potente da mezzo soprano, in classici degli anni Settanta come ‘You’re No Good’ e ‘Blue Bayou’. Due anni fa, in occasione dell’uscita di ‘Feels Like Home’, libro che porta il titolo della canzone (di Randy Newman) e dell’omonimo album del 1995, era tornata a parlare del morbo di Parkinson, diagnosticatole nel 2013 e poi derubricato a paralisi sopranucleare progressiva (Psp), un simil-Parkinson parimenti neurodegenerativo, invalidante e senza cura, che provoca paralisi dello sguardo, instabilità posturale, rigidità progressiva e demenza. “Posso cantare solo nel mio cervello”, aveva dichiarato alla tv statunitense la cosiddetta ‘First lady del rock’, parlando della terribile sensazione di non poter esprimere ad alta voce quanto accade musicalmente nella sua testa. “A volte sono io a scegliere la canzone, altre volte è il mio cervello a farlo per me”. Frustrazione che si aggiunge a frustrazione: “Il mio cervello sceglie la musica peggiore, che mi rimbomba in testa come una orribile carola natalizia”. Della malattia, Ronstadt aveva parlato ancor prima nel documentario ‘The Sound of My Voice’, co-diretto dal due volte Oscar Rob Epstein.
“Non conosco altro che il canto”, diceva Céline l’8 dicembre del 2022. “Cantare è ciò che faccio da una vita e che amo fare di più. Mi manca essere sul palco, esibirmi per voi. Per potervi raggiungere di nuovo, in questo momento non ho altra scelta se non concentrarmi sulla mia salute, e spero di essere in via di guarigione. Prendetevi cura di voi. Vi voglio bene, spero di potervi rivedere presto”.
Céline Dion è ricomparsa cinque mesi fa durante la notte dei Grammy Award. Anche Taylor Swift ha cantato sulle note di ‘The Power of Love’, brano portato al successo nel 1984 da Jennifer Rush e rilanciato nel 1993 da Céline in ‘The Colour of My Love’, scelto per accogliere alla Crypto.com Arena di Los Angeles l’artista canadese, lì per consegnare a Swift il grammofonino per ‘Midnight’, album dell’anno (Swift che nella felicità di ritirare il premio, a dirla tutta, nemmeno ha guardato negli occhi la collega, ma questa è un’altra storia). “Quando dico che sono felice di essere qui”, dice Céline durante l’introduzione, “lo dico dal profondo del mio cuore. Tutti coloro che sono benedetti da questo premio non devono mai dare per scontato l’amore e la gioia che la musica può portare nelle nostre vite”. Poi, nel backstage, scambia qualche vocalizzo con la giovane collega Sonyaé, regalando una mezza speranza in più sul suo ritorno di quanto non faccia il film.