Michael Jackson e ‘We Are The World’ a parte, breve storia di un aspirante gangster cui Duke Ellington chiese di decategorizzare la musica americana
“Ero quasi morto, ma dal Paradiso arrivò una e-mail che diceva: ‘Fratello Jones, qui abbiamo già Ray Charles, Frank Sinatra, Charlie Parker, Miles Davis, Dizzy Gillespie e non ci serve altro mal di testa”. Correva l’anno 2015 e l’82enne Quincy Jones ironizzava sull’ennesimo ictus che lo aveva portato a un passo dal ricongiungersi a The Genius (incontrato quando Ray Charles aveva 16 anni e lui 14) o al più maturo The Voice, infatuatosi a metà anni Cinquanta della padronanza del poco più che ventenne arrangiatore, capace di riscrivere un arrangiamento di fiati in un ‘lampo lampante’. Ma nel documentario che porta il suo nome di battesimo, girato nel 2018 dalla figlia Rashida e da Alan Hicks, Jones ha anche un’idea meno ironica nella morte, quando si danna di come gli amici se ne stiano andando uno a uno e a lui non restino che numeri di telefono ai quali nessuno può più rispondere.
Non è recentissimo ‘Quincy ’, ma è il racconto più fedele – perché narrato in prima persona – della vita e delle opere di Quincy Jones, morto lo scorso 3 novembre all’età di 91 anni dopo avere suonato, scritto, arrangiato e orchestrato molta della musica degli ultimi settant’anni. Raccontato per numeri, il produttore, arrangiatore, compositore e songwriter può vantare 28 Grammy su 80 nomination, più un grammofonino alla carriera consegnatogli nel 1992; raccontato per sommi, sommissimi capi (due), è colui che sta dietro ‘Thriller’ di Michael Jackson, l’album che ha venduto più dischi nella storia dei dischi, ma anche colui che una notte del 1985 riuscì a riunire nello stesso studio una cinquantina di egocentrici del pop insieme all’introverso Bob Dylan, e a farli cantare tutti insieme ‘We Are the World’, il singolo più venduto di sempre, almeno per qualche anno. Tutto questo dopo essersi caricato sulle spalle il jazz sposato e sperimentato agli inizi della carriera e averlo trasportato nei territori meno battuti e prevedibili.
Quincy Delight Jones Jr. nasce a Chicago nel 1933 da una madre affetta da turbe mentali e un padre generato da uno schiavista gallese insieme a una delle sue schiave. “Sognavo di fare il gangster”, dice in ‘Quincy’, mostrando sul viso i segni della strada. “D’altra parte, nella vita vuoi essere quello che vedi” e ciò che il giovane Quincy vede ogni giorno non sono certo buffetti sulle guance e buona creanza. A fargli cambiare idea è un pianoforte, trovato – e suonato – per caso in un’armeria. Dopo il divorzio, il padre porta Quincy a Washington quanto questi è ancora nei suoi teenage years; a Seattle poi, il giovane impara a suonare la tromba e altri strumenti, e ad arrangiare musica. Nei club della città incontra e collabora con Ray Charles, poi si sposta a Boston e infine a New York, dove suona nella band del vibrafonista Lionel Hampton. Nella Grande Mela accompagna Elvis in occasione delle sue prime apparizioni televisive, vive da vicino le vite di Charlie Parker e Miles Davis, è direttore musicale e arrangiatore di Dizzy Gillespie, prima di partire per Parigi, città dalla quale ha origine un tour in prima persona dall’esito fallimentare. L’ingente debito contratto spinge Jones a riparare in patria per cercarsi un posto fisso alla Mercury Records, dove produce e arrangia le grandi voci del momento. S’impunta per lanciare la meno conosciuta Dinah Washington, che balza in vetta alle classifiche e gli garantisce rispetto e considerazione. A fine anni Cinquanta, Quincy Jones – detto più semplicemente ‘Q’ – si lega a Sinatra, in studio e dal vivo, per un rapporto che durerà fino all’ultimo album del cantante, uscito nel 1984 (“Nessun contratto mai, tra di noi è sempre bastata una stretta di mano”).
Nel 1964, per ‘L’uomo del banco dei pegni’ di Sidney Lumet, Jones scrive la prima di una quarantina di colonne sonore che gli varranno undici nomination agli Oscar. Poco importa se non arriverà nessuna statuetta, l’invito rivoltogli da Duke Ellington a “decategorizzare la musica americana” è già raccolto e di lì a poco i servigi dell’aspirante gangster si applicheranno alla musica tutta, compresa la produzione solista (l’imprescindibile ‘The Dude’, 1981). Quanto alla consacrazione nel pop, galeotto fu ‘The Wiz’ di Lumet, rivisitazione blaxploitation de ‘Il meraviglioso Mago di Oz’ con protagonisti Diana ‘Dorothy’ Ross e lo spaventapasseri Michael Jackson. “Sono felice di avere fatto quel film”, dichiara Jones nel documentario ricordando la sua apparizione (non accreditata) nel film. “Durante le riprese Michael mi chiese di trovargli un produttore. Io conoscevo quel ragazzino nei Jackson 5, e nel film era puntuale sul lavoro e danzava divinamente. Gli dissi che l’avrei prodotto io”. Poco dopo sarebbe arrivato ‘Off The Wall’, poi il multimilionario ‘Thriller’.
Los Angeles, 1984, il Grammy per ‘Thriller’
“Sono così grata per avere incrociato la tua strada, il tuo talento. Sei stato d’ispirazione per tanti artisti. La tua musica ha illuminato il mondo e l’ha fatto ballare. I momenti passati insieme rimarranno per sempre impressi nel mio cuore. So che ti mancavano i tuoi e sono sicura che ora sei felice di riaverli”. Zaz è la più bella voce di Francia e quando Quincy Jones incrocia la sua strada la giovane Isabelle Geffroy è già una star del pop per via dell’inno ‘Je veux’. Nel 2014, raccogliendo l’invito del suo pubblico a fare un disco con dentro il meglio della chanson française, cantantessa ed entourage si dicono (“Pour rigoler”, tanto per ridere, ricorda Zaz) che per dare un tocco di jazz al tutto avrebbero voluto Quincy Jones. L’editore non si fa pregare e Mr. Q, come un tarantiniano Mr. Wolf, suona alla porta degli studi francesi per produrre tre brani dell’album ‘Paris’, tra cui un duetto con un Aznavour agli sgoccioli (‘I love Paris’) e una nuova versione di ‘Champs Elysées’, cover francofona di ‘Waterloo Road’ dei britannici Jason Crest, assai più nota nell’interpretazione di Joe Dessin e resa ‘definitiva’ dall’arrangiamento di fiati in quel tributo alla Ville Lumière.
Per Alfredo Rodriguez, insieme a Jacob Collier uno due dei ‘pupilli’ pianistici di Jones, “la musica ha perso una leggenda”. Il necrologio scelto dall’ex Chic Nile Rodgers, altro guru della produzione, è “Rest in power”, più o meno il medesimo di Carole King. Il cordoglio è trasversale come non mai, dal mondo del soul al regno dei dj, da Gladys Knight a David Guetta, fino ai grandi del rap, da LL Cool J a Ice-T, quest’ultimo tra gli interpreti dell’album più trasversale che la black music ricordi.
Keystone
Nel 1991 a Montreux, con Miles Davis
Partendo dalla constatazione che “hip hop e be bop hanno radici comuni”, nel 1989 Quincy Jones riunisce tre generazioni di artisti in ‘Back On The Block’, sette Grammy tra cui quello al Miglior album. Il disco contiene le ultime incisioni di Ella Fitzgerald e Sarah Vaughan, la tromba di Miles Davis, il genio di Joe Zawinul, un estratto della scena rap, George Benson (è Jones il produttore di ‘Give Me The Night’), i defunti Gillespie, Luther Vandross, Al Jarreau e altri che da tempo sono, appunto, non più che un numero di telefono. In occasione di quel disco, l’allora 56enne produttore torna fisicamente “on the block”, nella casa d’infanzia, dove si commuove davanti al letto in cui la madre fu immobilizzata dentro una camicia di forza e dove, all’uscita, un bimbo gli si para davanti: “Avevo 8 anni, avevo la tua età quando vivevo in questa casa” gli dice Quincy; “Tu sei quello che ha fatto diventare famoso Michael Jackson”, gli dice il bambino.
Questo flashback da vecchie trasmissioni tv è parte non meno toccante dell’intero ‘Quincy’, opera che tra acciacchi, aneurismi e riabilitazione del protagonista (e racconti di mogli avvenenti ma soprattutto eroiche, che a un certo punto non hanno più retto il lato ‘workaholic’ del produttore e se ne sono andate) è tenuta insieme dal Quincy Jones attivista: il documentario si chiude nel giorno dell’inaugurazione del primo museo dedicato agli afroamericani, lo Smithsonian National Museum of African American History and Culture, con il primo presidente afroamericano a tagliare il nastro, e a fare gli onori di casa il primo afroamericano che abbia mai ricoperto posizioni di rilievo in una major discografica, oltre che il primo afroamericano a essere candidato agli Oscar per una canzone originale e il primo afroamericano ad avere diretto l’orchestra dell’Academy. E cioè Quincy Jones, morto, con un certo tempismo, a pochi giorni dalle elezioni americane, prima che sul registratore a piste della storia qualcuno si prepari a schiacciare il tasto ‘rewind’.