‘The Greatest Night in Pop’, la storia di una canzone che ha cercato di cambiare il mondo e un ritratto del pop nel suo momento di massimo splendore
“Erano le 8 di mattina quando arrivai a casa; entrai e trovai la mia famiglia pronta a congratularsi per il programma. Ma io parlavo solo della canzone. Bastò quella notte per farmi dimenticare qualsiasi altra cosa”. Il “programma” sono gli American Music Awards del 1985 e a presentarli, la sera del 28 gennaio, è l’artista del momento: Lionel Richie. Ha lasciato i Commodores, vende dischi come pochi e ha la faccia giusta. Negli uffici del suo manager Ken Kragen, una mattina entra Harry Belafonte: “Ken, ora ci sono i bianchi che salvano i neri, ma non c’è nessun nero che salvi i neri. È un problema”. Belafonte, attivista oltre che cantante e attore, sta parlando di ‘Do They Know It’s Christmas?’, il singolo cantato dal gotha degli artisti britannici che giusto un anno prima aveva fruttato soldi per l’Etiopia. “Dobbiamo salvare la nostra gente dalla fame”, dice Belafonte. Serve una canzone: Kragen pensa a Lionel Richie e Lionel Richie pensa a Quincy Jones, produttore, l’altra metà di ‘Thriller’; Richie pensa anche a Stevie Wonder come co-autore, ma Stevie non risponde al telefono. “Domani vedo Michael Jackson”, dice Kragen, “vediamo che ne pensa”. Con Stevie Wonder uccel di bosco, l’ex frontman dei Commodores dice all’ex frontman dei Jackson 5: “Tu scrivi la tua versione, io la mia, ma se vogliamo lavorare con Quincy Jones dovrà essere grandiosa”. E a casa di Michael Jackson, tra un serpente e una scimmietta, tra un merlo indiano e un cane che litigano, nasce quella cosa immortale chiamata ‘We Are The World’.
Presentato in anteprima al Sundance Film Festival lo scorso 19 gennaio, già su Netflix perché prodotto da Netflix, ‘We Are The World: la notte che ha cambiato il pop’ (The Greatest Night in Pop) regala più degna collocazione agli estratti dalle session di quella canzone che la rete già conosce, clip presumibilmente tratte dal making of su Vhs che accompagnò il disco. Ma è tanto altro il materiale inedito, incluse le interviste ad alcuni degli interpreti – Lionel Richie, sorta di voce narrante, Springsteen, Huey Lewis, Sheila E., Smokey Robinson, Cyndi Lauper, Dionne Warwick, Kenny Loggins – e a figure tecniche come l’ingegnere del suono Humberto Gatica o l’arrangiatore Tom Bahler, colui che insieme a Quincy Jones scelse le parti soliste per alcune delle 47 star coinvolte, convinte di persona o tramite manager a sposare la buona causa. Dove? Negli studi della A&M a Los Angeles. Quando? Alla fine degli American Music Awards presentati da Lionel Richie, il giorno buono sul calendario di tutti.
‘The Greatest Night in Pop’ è una sorta di countdown che accompagna alle session e insieme un ritratto del pop nel suo momento di massimo splendore, prima di diventare contenitore di ogni nefandezza acustica, confusa con l’arte. Il film di Bao Nguyen, già autore di un flashback su Bruce Lee, è un trattato di analogica fatto di musicassette, registratori a bobina e musicisti umani, dannatamente complici di un inevitabile momento nostalgia. Complici almeno quanto Tina Turner e Billy Joel all’apice della propria parabola artistica che chiacchierano amabilmente, partiture in mano; complici quanto Al Jarreau sbronzo che ruba la strofa a Willie Nelson, Paul Simon che discute di armonie con Kenny Rogers e Stevie Wonder che si offre di accompagnare al gabinetto Ray Charles (qualcuno esclama “Stai attento che non sbirci!”, per l’ilarità dei due).
In questa carrellata di idoli che vorresti fossero rimasti così per sempre, tre momenti valgono il ‘play’ sul telecomando: Michael Jackson nello studio vuoto che incide la sua voce (si ascolta solo quella, rimpiangendola); Diana Ross che chiede l’autografo a Daryl Hall e a catena tutti si dichiarano al proprio idolo, autografandosi a vicenda; uno spaesato Bob Dylan che nel registrare la parte solista, in mezzo a voci intonatissime, pare chiedersi “cosa ci faccio io qui?”: il cantautore ha l’umiltà di chiedere aiuto a Stevie Wonder, che da vocal coach gli canta la parte ‘à la Bob Dylan’, imitandolo; Quincy Jones capisce l’imbarazzo, fa svuotare la sala e Dylan si produce nel melodico e un po’ soul “There’s a choice we’re making…”; chiede di rifare, ma il produttore/psicologo giura che è perfetta così. “Se lo dici tu…”, risponde Bob.
C’è tanto altro in ‘We Are The World: la notte che ha cambiato il pop’, da Prince che ‘se la tira’ e tira il bidone (lo sostituisce l’incredulo e impeccabile Huey Lewis, con i suoi The News a fare il coro) a, di nuovo, Stevie Wonder che rischia di mandare tutto all’aria, perché nel mezzo delle registrazioni pretenderebbe di far cantare a tutti il ritornello in lingua swahili.
Sono le otto di mattina quando Lionel Richie torna a casa. Era già mattina quando Springsteen, con la voce a pezzi per i postumi del tour di ‘Born in the USA’, chiudeva le danze. “Il grosso è stato fatto”, dicono i tecnici, ‘We Are The World’ di USA for Africa uscirà nel mondo il 7 marzo e in giugno sarà cantata sul palco del Live Aid di Philadelphia. Quel 28 gennaio, all’entrata degli A&M Studios, un biglietto recitava “Check your ego at the door”, lasciate fuori il vostro ego. Lo aveva scritto Quincy Jones di suo pugno, convinto che solo con la disponibilità di tutti si sarebbe vissuta la più grande notte del pop.