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Molte ‘Feud’, nessun vincitore

Joan Crawford contro Bette Davis, Truman Capote contro ‘I cigni’: litigi e rivalità sono un materiale pressoché inestinguibile (anche per le serie tv)

Su Disney+. Nella foto, Tom Hollander in ‘Feud: Capote vs The Swans
29 settembre 2024
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L’epoca d’oro delle serie tv è finita da un pezzo. Non ci sono più romanzi a puntate capaci di tenerci inchiodati per sei, otto, dieci stagioni, influenzando mode e discussioni in pausa pranzo. Non è detto, però, che l’unica alternativa alle serie Marvel e Star Wars siano altri spin-off di ‘Game Of Thrones’ (altre quattro in sviluppo, si dice, oltre a ‘House Of The Dragon’) o una nuova serie tv crime al mese con protagonista Nicole Kidman. Per sfuggire alle pareti sempre più strette del presente televisivo, basta spulciare nei cataloghi dei canali in streaming in cerca di serie ignorate dal dibattito social e dai premi. Io, ad esempio, ho scoperto per caso e solo di recente ‘Feud: una serie antologica’, con due stagioni uscite a sette anni di distanza l’una dall’altra (la prima nel 2017, la seconda a inizio 2024) che raccontano storie diverse.

Questioni di Oscar

Prodotta da Ryan Murphy (‘Nip/Tuck’, ‘Glee’ ma soprattutto ‘American Horror Story’ e ‘American Crime Story’), come il suo titolo lascia immaginare, ‘Feud’ racconta storie di conflitti, litigi, rivalità così feroci da sconfinare nell’odio più distruttivo. E però, come si dice nella prima puntata della prima stagione: “Le rivalità non sono dovute all’odio, ma al dolore”. Nella prima stagione, ‘Feud: Bette and Joan’, Jessica Lange e Susan Sarandon interpretano Joan Crawford e Bette Davis. Nel 1962 le due attrici, ostracizzate da Hollywood perché non più giovani, hanno girato insieme ‘Che fine ha fatto Baby Jane’ (1962), un film su due sorelle in competizione tra loro che finiscono per torturarsi e uccidersi. Il film, nato da un’idea di Joan Crawford, così disperata che per lavorare ha dovuto cercarsi da sola un romanzo da adattare e proporre al regista Robert Aldrich, ebbe un successo fuori dalle aspettative. Anche, appunto, per il modo in cui sublimava l’odio reale che le due attrici provavano l’una per l’altra. L’avidità del pubblico, l’amore per il gossip, è il mostro fuori dalla scena, il motore della tristezza che muove ‘Feud: Bette and Joan’.

Ma perché si odiavano? Bette Davis, bruttina, che ha dovuto costruirsi una carriera convincendo un esercito di produttori e registi a guardare oltre il suo aspetto, soffriva la bellezza di Joan Crawford; Joan Crawford, con un passato umile e scandaloso, non accettava né di invecchiare né il fatto che Bette Davis avesse più talento. Erano l’una il pezzo mancante dell’altra. Ryan Murphy sembra pensare che, stringi stringi, non ci fosse molto altro dietro questa reciproca invidia, che è da questa palla di neve che è nata la valanga. ‘Che fine ha fatto Baby Jane’ avrebbe potuto portare Bette Davis al suo terzo Oscar: sarebbe stata la prima donna nella storia a riuscirci. Ma Joan Crawford fece di tutto per mandarle a monte la festa e rubarle la ribalta. Riuscendoci, ma condannando se stessa alla rovina insieme alla sua rivale.

Sulla prima stagione di ‘Feud’ è abbastanza riconoscibile la mano di Ryan Murphy, re del camp (una forma consapevole di kitsch) che ama mescolare toni da film horror al registro sentimentale e persino patetico. Ed è interessante notare che Jessica Lange e Susan Sarandon interpretano due attrici rimaste senza ruoli di rilievo perché troppo “vecchie”, pur essendo, loro, più anziane di quanto fossero Crawford e Davis ai tempi dei fatti. Quello delle attrici mature – aggettivo che mette i brividi, “maturo” è il vicino di casa di “marcio”, “andato a male” – quello dell’anzianità femminile nel cinema, dicevamo, è un meta-tema che Ryan Murphy ha portato avanti anche negli altri suoi progetti, in cui oltre a Jessica Lange (sua attrice feticcio fin dalla prima stagione di ‘American Horror Story’ nel 2011), compaiono spesso grandi attrici non più giovanissime come Angela Bassett, Kathy Bates o la sempre incredibile Jamie Lee Curtis.

Dame di corte

Anche nella seconda stagione, ‘Feud: Capote vs The Swans’, ci sono una serie di fantastiche attrici oltre i cinquant’anni: Naomi Watts, Chloe Sevigny (che, per dovere di cronaca, di anni ne ha quarantanove), Calista Flockhart, Diane Lane e Demi Moore. Interpretano le donne dell’alta borghesia newyorkese che hanno isolato e di fatto spinto al suicidio Truman Capote, per l’appunto i “cigni” del titolo. Lo scrittore è interpretato da Tom Hollander, che ne ha reso alla perfezione i tic e l’affettazione, la parlata ispirata con gli occhi chiusi, la voce acuta che fatica a uscire dalla bocca, la camminata stanca e civettuola. È tutto un po’ caricaturale ma la versione di Hollander non sfigura vicina a quella con cui Philip Seymour Hoffman vinse un Oscar. Altrettanto straordinaria è Naomi Watts, nella sua gelida interpretazione di Babe Paley, la migliore amica di Capote. Sia lei che Treat Williams (che interpreta suo marito), Diane Lane e Tom Hollander si sono guadagnati una candidatura agli ultimi Emmy nelle categorie riservate alle miniserie – come già era successo con Susan Sarandon e Jessica Lange nel 2017 – ma nessuno di loro ha vinto. Un piccolo paradosso per una serie quasi interamente retta sulle spalle dei suoi attori.

‘Feud: Capote vs The Swans’ racconta del tradimento di Truman Capote che, dopo essere entrato nella cerchia più intima di questo gruppo di dame di corte – New York degli anni ’50 e ’60 somiglia molto a Versailles – le ha tradite scrivendo di loro un ritratto tanto fedele quanto brutale e distaccato (un trattamento simile a quello riservato agli assassini di ‘A sangue freddo’) in un racconto intitolato ‘Cote de Boeuf’, dal nome del ristorante francese dove si riunivano. Pubblicato su Esquire come anteprima di un nuovo romanzo, il racconto finì sulla bocca di tutti, spingendo una delle donne ritratte al suicidio. Troppo per Babe, che non perdonerà mai Capote a costo di soffrire lei stessa fino all’ultimo giorno. Truman Capote non finirà mai il suo ultimo romanzo, i cui frammenti vennero pubblicati postumi col titolo ‘Preghiere esaudite’. Il tono di questa stagione è più elegante e grave rispetto a ‘Feud: Bette and Joan’, anche per via della regia Gus Van Sant che ha diretto quasi tutti gli episodi con un formalismo francamente pesante e un po’ noioso negli ultimi episodi, quando Capote sprofonda nell’autodistruzione con alcol e medicine.

Ma allora perché Capote ha pubblicato ‘Cote de boeuf’? Quale pensava sarebbero state le conseguenze? Ryan Murphy risponde di nuovo giocandosi la carta del trauma mai superato: la madre di Capote (Jessica Lange) che lo ha abbandonato da piccolo e poi lo ha portato a New York, dove ha finito per suicidarsi poco prima che Capote compiesse trent’anni. Truman, quindi, avrebbe vendicato la madre distruggendo la perfezione apparente di quella borghesia che l’aveva rifiutata, e in cui si sentiva solo parzialmente a proprio agio (in quanto gay). Così facendo, però, si è a sua volta suicidato. Qui non c’è nessun lieto fine, neanche immaginario come per Bette and Joan. Nelle rivalità così violente non ci sono vincitori, soprattutto quando il vero nemico è il tempo, i cingoli della storia che passano sopra a tutto, fanno invecchiare le attrici e trasformano la società intorno a noi facendoci passare di moda. Truman Capote avrà anche smascherato la freddezza e la volgarità di un mondo che si fingeva perfetto, ma non è stato certo il suo racconto a decretare la fine di quella New York.

I litigi e le rivalità sono un materiale pressoché inestinguibile, Murphy avrà l’imbarazzo della scelta per la terza stagione (la seconda, nei piani originali, avrebbe dovuto parlare del Principe Carlo e di Lady Diana). L’importante è non dover aspettare sette anni come è successo tra le prime due.


Lange vs Sarandon