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La ‘selvosa immacolatezza’ di Anton Bruckner

A duecento anni dalla sua nascita, ripercorriamo la storia del compositore austriaco, musicista incompreso che segnò la storia pur restandone ai margini

4 settembre 1824, Ansfelden (Austria) - 11 ottobre 1896, Vienna
(Wikipedia)
2 settembre 2024
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È difficile trovare in tutto l’Ottocento personaggio più incollocabile di Anton Bruckner, musicista che fu capace di lasciare un segno nella storia rimanendone fuori della porta come derelitto che nessuno comprese mai appieno nella sua ingenua vicenda artistica. Wagneriano per necessità di trovare qualcosa di comune con un’esperienza sanzionata dalla coscienza contemporanea, di Wagner e del suo sbocco nel dramma sinfonico nulla capì e poco con quella musica la sua ebbe a spartire. Romantico per le ascendenze a cui inevitabilmente si dovevano ricondurre le sue sinfonie, l’‘analfabetismo’ letterario lo relegò nelle velleità delle goffe didascalie con cui egli si provò a commentare alcuni movimenti della sua Quarta sinfonia (‘Romantica’). Contadino per l’origine provinciale, si trovò inurbato a Vienna a recitare senza vocazione il ruolo dell’antibrahmsiano nelle diatribe scatenate da Hanslick per il gusto di raffinati palati borghesi ai quali, senza il condimento di intellettualistiche provocazioni, la musica nella sua spontaneità non diceva più niente. Nonostante tante e tali condanne all’emarginazione, Bruckner testimonia una condizione del proprio tempo, un modo d’essere che nell’“idealismo incrinato” (Martinotti) ne fa, al pari di altri giganti suoi contemporanei, portatore del virus che innescò la crisi del filone romantico. E se da tal morbo fu solo contagiato senza prenderne piena coscienza e subendone umilmente l’affanno, poco importa, valendo come sempre la musica per il ruolo che essa è destinata a svolgere nella cultura al di là di tutte le più conclamate o più sottintese intenzioni individuali assegnatele dagli artefici.

Nessuno si è mai illuso di trovare nei goliardici atteggiamenti schubertiani testimonianza capace di svelare la chiave per capire come si fosse costituita quella matura coscienza visionaria custodita dalla sua musica. Ma l’indulgenza che siamo disposti a concedere al massimo liederista per esser vissuto nell’ormai mitico paradiso perduto del primo Ottocento, nessuno è disposto a tollerare nei confronti di Bruckner, il cui candore non pare credibile in un’epoca di fratture irreparabili ormai entrate irreversibilmente a ingombrare persino le coscienze dei più sprovveduti. La “selvosa immacolatezza” di cui parla Adorno gli potrà perciò essere rivolta a rimprovero (magari con lo sprezzo insito nell’atteggiamento classista dell’altezzoso vate di una cultura borghese indifferente agli ingenui, ma autentici fervori di subalterne realtà contadine), negandogli diritto di cittadinanza fra coloro che la condizione borghese aveva predestinato al ruolo di cassandre di una cultura entrata in disfacimento. E si dimentica con ciò che, se i veri naïf sono sempre esistiti, le loro idilliache forme espressive sono totalmente differenti da come appare in Bruckner l’aspirazione a forme artistiche superiori, la sinfonia appunto sulla quale concentrò il massimo sforzo, pur non essendo la sinfonia per Bruckner prodotto di scelta conseguente a critiche verifiche.

L’equivalente laico

Come le messe rappresentarono nel periodo di Sankt Florian l’eletto campo d’azione per un musicista preoccupato di adeguare il proprio lavoro d’artista a una civiltà paesana fortemente determinata da tradizioni religiose, la sinfonia gli appare come l’equivalente laico con cui avrebbe dovuto fare i conti dopo il suo trapianto a Vienna; un problema di riformulazione di identità quindi, risolto con atto di “fede nell’autorità” che gli era dettato dall’educazione contadina. Per questa ragione è improprio assegnare valore simbologico e proclamatorio ai corali disseminati nel suo dilatato spazio sinfonico. La possente fanfara corale che chiude l’esposizione nel primo tempo della Quarta sinfonia risuona terrificante come fosse posta a guardia delle porte chiuse di un tempio da non oltrepassare, poiché la religiosità in senso lato che pervade ognidove la musica di Bruckner non si definisce come tormentata ricerca di un rapporto con l’essere superiore, ma piuttosto come umile riverenza al dogma. E come al di qua del dogma è possibile godere di una ragionevole libertà, così per Bruckner non esiste problema di rispetto dell’autorità dopo aver egli assunto nelle linee generali la lezione sinfonica dei predecessori.

Il modello che evidentemente risale alla Sinfonia in do maggiore di Schubert è spontaneamente assecondato senza dar luogo a problematiche operazioni di adeguamento inneggianti a discendenze privilegiate. La linea che lo collega a Schubert, d’altronde, nemmeno può dirsi frutto di scelta soppesata, venendo essa a imporsi di per sé a un compositore di pretta formazione austriaca.

Ma Schubert precorre Bruckner per altra fondamentale ragione, manifesta nell’inerme stupore della melodia dell’Andante dipanata sulla scansione ineluttabile di passo vagante senza meta promessa. Qui, se gli è ormai vietato l’intimo raccoglimento che a Schubert aveva consentito vertici di puro lirismo, l’apparizione dei richiami di una natura estesa a spazio di memoria attraverso gli incisi dispersi delle ineffabili voci di strumenti a fiato sospinge la coscienza al margine della voragine dell’assurdo, nelle cui braccia si getterà l’allucinata esperienza mahleriana e che Bruckner aggira protetto dalle ali di un angelo custode che accompagna come ombra l’uomo di fede. Ed è questa schietta fiducia nella certezza di una salvazione che consente al musicista di non soccombere schiacciato dal peso di una forma sinfonica pronta a scoppiargli tra le mani per superfetazione, determinata dalla liberazione di tensioni esplosive conseguenti alla perdita dell’originale identità. In tal modo è dato ancora di mantenersi in piedi a un impianto che riesce appena a dissimulare la sopravvenuta impotenza di sviluppo, sostituito dalla capacità involvente della melodia infinita che apparentemente rimanda a Wagner, ma che al contrario – risultando spogliata degli accenti di fremente passionalità da Wagner trascinati in un vortice di mistica sensualità – permette a Bruckner di recuperare, ad ogni passo falso suscettibile di scagliarlo in fondo all’abisso, l’alata forza giovanile di un romanticismo ancora rassicurato dalla fantastica visione di una terra promessa, fervidamente immaginata nei colori sgargianti del paesaggio silvestre dello Scherzo. Qui tuttavia l’altisonante richiamo dei corni che ripropone le immagini familiari dell’idillio campestre va a sboccare nel tellurico fragore di una gigantesca sezione di ottoni prossima a cedere alla tentazione del ghigno sardonico che, come gesto dissacratore, giunge a far trasalire con oscuro fremito la luminosa sonorità di una facciata eretta nel nome di un illusorio e ormai precario principio d’autorità.


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Vienna, Stadtpark