Nel 2000, per indossarne i panni, si sarà anche presa metà del budget, ma in quel film l'attrice non interpreta l'attivista, è l'attivista
Nel frequentare il Locarno Film Festival, di fronte a un programma sempre molto ricco e variegato, e che spesso presenta qualche dilemma quando si tratta di scegliere, a volte mi capita di puntare sul sicuro: come quando, l’altro giorno, opto per ‘Erin Brockovich’ di Soderbergh, lungometraggio del 2000 che, invero, non ho ancora visto. Il film è basato sulla storia vera dell'impiegata di uno studio legale che scoprì il dannoso inquinamento delle falde acquifere da parte della Pacific Gas & Electric e che guidò la causa contro l’azienda. A introdurre la proiezione al GranRex c’è Stacey Sher, la produttrice del film, che a Locarno ha ricevuto il Premio Rezzonico. In maniera molto informale la Sher dice un paio di cose, tra il serio e il faceto, sul film. Aneddoti, dettagli presentati in maniera un po’ erratica che sulle prime sembrano secondari: come il fatto che Julia Roberts, che all'epoca era l'attrice più gettonata di Hollywood, per recitare la parte della protagonista ha intascato metà del budget totale del film. La Roberts, lo sappiamo, per quel film si è presa meritatamente un Oscar come migliore attrice protagonista: e infatti la produttrice lo fa notare e aggiunge, riferendosi al cospicuo cachet, che ne era valsa la pena.
Poi si spengono le luci e, senza troppo preamboli, comincia il film: è un inizio di quelli in medias res, dove le prime scene si intersecano ai titoli di testa, e il cervello inizia subito a lavorare per cercare di dare un senso a quello che vedono gli occhi, mettendo assieme i primi pezzi di ciò che, prima di essere una storia, è ancora un puzzle. L’azione è molto dinamica, ma l’operazione non è troppo complicata perché la telecamera si concentra su di lei, Erin Brockovich. Passano un paio di minuti e, in maniera inequivocabile, la trama si coagula attorno al personaggio principale con una tale intensità che, mentre ancora scorrono i titoli di testa, arriva un primo shock: vieni letteralmente travolto dall’energia della protagonista quando ancora cerchi di inquadrarla, di capire chi è, cosa fa, e per quale motivo. Passano ancora una decina di minuti. In quel primo quarto d’ora, succedono tre cose: la prima è che ti fai trascinare da un personaggio che rompe gli schemi, e che non conosce altra logica se non quella di agire in maniera impulsiva. La seconda è un’operazione piuttosto convenzionale, e riguarda la classica domanda: che cosa sta succedendo? La terza non è tanto un processo, quanto una conferma: ti torna in mente il commento della Sher che valeva la pena riservare alla Roberts metà del budget del film. Non puoi che essere d’accordo: la recitazione della Roberts è, semplicemente, mostruosa.
Nei discorsi di circostanza che aprono i festival succede puntualmente, dopo un’infinita serie di egregio di qua, spettabile di là, onorevole X e eminente Y, di sentirsi dire che il cinema è un importante strumento di comunicazione che preserva la pluralità delle esperienze. Ma è un’altra cosa scoprire, sullo schermo, che il cinema insegna, che il cinema dimostra: e che la recitazione perfetta della Roberts – quella incazzatura tutta spigoli e niente fronzoli – si infila talmente bene nella trama del film da rendere il personaggio più reale del reale. Non importa se sei a Locarno, a Berlino, a Cannes o a Zurigo, e neppure se la star la vedi sullo schermo, e non in passerella. È nei momenti di vero cinema che capisci anche il senso profondo di quella abitudine tutta hollywoodiana per cui, quando si lancia un film, per ottenere un certo effetto non si dice che Julia Roberts interpreta Erin Brockovich, ma che Julia Roberts è Erin Brockovich. Allora credo che quello che affermava Simone Weil a proposito degli scrittori, valga anche per gli attori: che “ci danno, sotto forma di finzione, qualcosa di equivalente all'attuale densità del reale, quella densità che la vita ci offre ogni giorno ma che siamo incapaci di afferrare perché ci stiamo divertendo con delle bugie”.