Questa sera al Lac, prima assoluta del brano composto dalla violinista e compositrice Patricia Kopatchinskaja che ci racconta la sua idea di musica
Arriviamo all’Auditorio Stelio Molo mentre l’Orchestra della Svizzera italiana sta provando il brano con cui, questa sera al Lac, si aprirà la terza edizione di ‘Presenza’, il festival di Pentecoste curato da Sol Gabetta. A fianco della violoncellista argentina, il direttore Markus Poschner e l’ospite d’onore di quest’anno, la violinista e compositrice Patricia Kopatchinskaja. È suo il brano ‘A play’ che l’Osi sta provando e che è stato appositamente commissionato per il festival: si tratta, appunto, di una prova, ma già si percepiscono chiaramente l’energia e l’eccentricità di Kopatchinskaja.
Approfittiamo di una pausa nelle prove per chiedere a Sol Gabetta come affronta questa terza edizione di ‘Presenza’. Terza e ultima visto che, come annunciato nel presentare la nuova stagione dell’Osi, l’anno prossimo a Pentecoste ci sarà infatti un programma speciale curato da Poschner, a conclusione dei suoi dieci anni da direttore principale. «Non la vedo come una fine» ci risponde subito la violoncellista. «Quando inizi un progetto del genere non sai mai dove ti porterà, non sai se funzionerà davvero, non sai se le personalità di solista, orchestra e direttore si incontreranno… esperienze del genere sono rare: un progetto speciale come questo di solito coinvolge piccoli gruppi di artisti che si conoscono bene, non un’orchestra completa. E adesso che sono arrivata al terzo anno, che abbiamo concluso questa “trilogia”, posso dire che è stato un viaggio artistico che mi è piaciuto molto». In particolare è la diversità, non solo di talenti ma anche di repertori e stili, ad aver conquistato Gabetta. «Mi sembra che anche il pubblico l’abbia capito, che siamo qui per proporre qualcosa di speciale».
Quest’anno queste varietà e ricchezza sono portate anche da Patricia Kopatchinskaja che Sol Gabetta definisce «una grandissima musicista oltre che un’amica». Quello composto per ‘Presenza’ «è il primo brano per orchestra che ha scritto per noi: abbiamo già suonato insieme dei suoi pezzi ma erano solo per violino e violoncello». La presenza di Kopatchinskaja, prosegue Gabetta, dà anche un senso al titolo del festival: «Si chiama ‘Presenza’ perché siamo presenti sul palco dall’inizio alla fine, non arriviamo semplicemente qui per la parte solista di un concerto. Qui ho un ruolo completo, di musicista in senso ampio: l’unica cosa che non faccio è dirigere, perché abbiamo un direttore fantastico». Questo festival, conclude, «è per me una fortuna e credo sia importante non lasciare cadere del tutto questo progetto: sarebbe bello continuare, anche non ogni anno visto il grande lavoro di ideazione e preparazione».
Il festival, dopo il concerto di questa sera – con in programma anche musiche di De Falla, Prokof’ev e Sibelius –, avrà domani, sabato 18 maggio, un secondo appuntamento con una replica di ‘A play’ di Kopatchinskaja e musiche di Šostakovič e Sibelius. Informazioni su www.osi.swiss.
Lasciata Sol Gabetta alla prova del Secondo concerto per violoncello di Prokof’ev, raggiungiamo Kopatchinskaja nel suo camerino.
Che cosa è la musica per lei? È una questione soprattutto tecnica o è più emozione, passione?
È tutto. È il tutto: è energia, amore, movimento, fantasia, immaginazione. E anche forma: la musica, come un’immagine, ha una forma solo che questa forma è il tempo. È qualcosa che non si può toccare, tenere in mano o possedere: è qualcosa che accade, qualcosa che puoi ascoltare, che puoi respirare. È qualcosa in cui puoi anche entrare, come in un edificio o in una fantasia. Ed è anche una storia.
Una storia?
Sì, è qualcosa che racconti al pubblico. Per me è una questione di comunicazione.
Questa dimensione ‘narrativa’ riguarda tutta la storia della musica, da quella contemporanea a quella più antica?
Credo di sì. Penso che quello che cambia siano solo il linguaggio e lo stile, ma le cose fondamentali di cui la gente parla sono sempre le stesse, dalle più semplici alle più sofisticate o filosofiche. Cose molto pratiche, cose divertenti, cose poetiche.
Però la musica contemporanea, o almeno certa musica contemporanea, è considerata intellettuale, più cerebrale rispetto a quella precedente.
Dobbiamo cercare di pensare senza fermarci al presente. Penso che quando Beethoven scrisse gli ultimi quartetti, le persone non lo capissero ugualmente: quella era la musica contemporanea del tempo. E lo stesso anche la ‘Carmen’: i critici dissero che non c’era melodia. O Čajkovskij, che suonava come un russo ubriaco… penso che la musica contemporanea abbia sempre avuto questo problema: la gente ancora non capisce questo linguaggio.
Il rischio che corriamo oggi è che la musica classica finisca confinata in un ghetto. Perché abbiamo tantissima musica, abbiamo il pop, la musica elettronica, il rap… su Spotify troviamo tutti questi generi e poi anche “un po’” di musica classica, che ha una parte che sta diventando sempre più piccola. Il nostro pubblico sta diventando sempre più piccolo.
Può essere dovuto all’esperienza dei concerti di classica, troppo ‘ingessati’ rispetto a un concerto pop o rock?
Certo: un concerto pop o rock è un evento, uno stare insieme in cui c’è molta energia e questa energia è autentica, animale. Un concerto di musica classica a volte è come un museo, è soffocante: quasi non riesci a respirare perché cerchi di suonare in maniera pulita e perfetta. Ma è un criterio sbagliato: quello che si dovrebbe cercare è la vita, e la vita non è mai perfetta. Credo che il confronto continuo con le registrazioni abbia danneggiato i concerti di musica classica, ne abbia distrutto la vivacità e la gioia. Suonare è un gioco.
In italiano giocare e suonare sono due parole diverse, ma in altre lingue il termine è lo stesso.
Sì, bisogna suonare come un bambino che gioca nella sua stanza: deve essere una gioia, un divertimento, qualcosa che facciamo senza pensare di essere i migliori o di essere nel giusto.
Un concerto di musica classica spesso è un’esperienza accademica, istituzionale. E penso che dovremmo uscire da questa prigione, diventare umani. Non possiamo parlare come un prete fa con fedeli che ascoltano, ma creare una comunicazione tra pari.
Questo è vero anche per le tradizioni dell’Europa orientale? Lei è nata in Moldavia: come era la musica con cui è cresciuta?
In Moldavia la musica è molto popolare. A ogni matrimonio, a ogni funerale, a ogni compleanno c’è la musica, c’è qualcuno che suona. E suona per le persone che sono lì, non per analizzare delle forme sofisticate. È musica, semplice e chiara musica.
E questo è il mio modo di suonare: quando suono cerco di pensare alla musica come fa un musicista popolare. E questo anche per la musica contemporanea: non la devo analizzare, non la devo comprendere ma la devo percepire, la devo sentire. Quando ascolto Boulez, lavoro di immaginazione, lo traduco nel mio linguaggio. Quando ascolto Stockhausen lo trovo incredibilmente interessante. O Edgard Varèse, o Claude Vivier.
È difficile immaginare Boulez suonato a un compleanno.
Lo so ma ugualmente: tutte queste persone non hanno semplicemente scritto delle note, hanno scritto della musica. Lo disse anche Schönberg: non scrivo principi, scrivo musica. E nella sua musica trovi dei mondi. Anche se in una musica non riconosci più le forme della tradizione, questo non significa che non ci sia una forma: una forma c’è sempre, solo che è completamente nuova. E se si fa come un musicista popolare, la si può sentire.
Per comporre ‘A play’ quali idee ha seguito?
Innanzitutto teatrali: penso che ci sia una forte impostazione teatrale, un allestimento. Per me questa dimensione teatrale è molto importante.
È quella che dà quella ‘dimensione viva’ al concerto?
Sì, ci sono molte dimensioni: c’è qualcosa di spirituale, c’è qualcosa di narrativo. Alla fine sono su un palco, ragiono come un regista teatrale. Che cosa viene per primo, con cosa si inizia? All’inizio, ci sono le percussioni, poi i due solisti, poi i fiati…
Ed è anche molto personale: ci sono tante storie, tante persone, tanti amici. Una parte della composizione è dedicata a Péter Eötvös, il compositore ungherese che è morto da poco (il 24 marzo 2024, ndr) e che era un buon amico.
Più in generale, è come la commedia dell’arte: assegno dei ruoli e poi i musicisti e l’orchestra devono interpretarli.
E i musicisti riescono a capire di avere un ruolo, più che una partitura?
Siamo musicisti, siamo artisti: è il nostro ruolo. Dobbiamo riuscire a portare la musica contemporanea alle persone che ci ascoltano. Dobbiamo dare loro una torta che sappia di qualcosa, non che abbia qualche sapore strano venuto fuori da qualche laboratorio che la gente non capisce. Non deve essere così: tutti possono capire la musica. E io voglio che questo brano sia anche piacevole e divertente, un caleidoscopio di colori e di idee.