Sabato 27 e domenica 28 maggio al Lac, con l'Osi e la violinista Isabelle Faust, la star del violoncello nel festival che scardina le convenzioni
Cerchiamo qualcosa per rompere il ghiaccio: sotto l’ombrello, in una Lugano pre-esplosione estiva, prendono posto i pensieri d’infanzia, quando il basso elettrico era semplicemente “una chitarra, ma più grande” e il violoncello “un violino, ma più grande”. Perché ci sono strumenti musicali meno immediati di altri, che qualcuno scopre da grandicello. Per innamorarsi del violoncello serve qualcuno che ti spieghi che non è “un violino, ma più grande”, bensì qualcosa di ancor più ‘fisico’. Per amare il violoncello può anche bastare l’innamorarsi perdutamente di Julie Miller, la violoncellista di ‘Saranno famosi’. Poi un giorno, da adulto, arriverà qualcuno abbastanza esperto da confutare l’idea che il violoncello sia qualcosa di prettamente femminile, vuoi per quell’abbraccio quasi materno della strumentista al suo strumento, vuoi per la dolcezza del suono. Vuoi per Julie Miller.
«Io credo che si tratti di un cliché, niente di più», ci dice con un sorriso Sol Gabetta, quel qualcuno di abbastanza esperto da confutare – in quanto stella del violoncello – tutti i nostri punti fermi. Lei che da un paio d’anni confuta i punti fermi dell’intera forma concerto, un rituale che la violoncellista svizzero-argentina ha voluto ripensare dal punto di vista del solista, all’interno del Festival Presenza curato dal marito Balthazar Soulier. L’evento torna al Lac per la sua seconda edizione questa sera alle 20.30 e domenica alle 11. ‘Presenza’ 2023 è nel segno di Schumann – il Concerto per violino e orchestra in re minore WoO 23, e quello per violoncello e orchestra in la minore op. 129 – e di Brahms – Concerto per violino, violoncello e orchestra in la minore op. 102 – dove il violino sarà quello di Isabelle Faust e l’orchestra quella della Svizzera italiana (Osi).
«In verità ci sono tantissimi uomini che suonano il violoncello», racconta Gabetta. «Anzi, nel mio processo di ricerca sullo strumento ho constatato come la storia non sia stata generosa di violoncelliste, presenza femminile esigua come per molti altri lavori». O «passioni», che è come lei intende il suo lavoro. «Ed è bello – aggiunge – constatare come quelle poche donne, nella prima metà dell’Ottocento, vivendo una passione, siano riuscite a suonare il violoncello da soliste, cominciando a organizzare il proprio lavoro, andando oltre l’arrivare in un posto, aprire la partitura e leggere il proprio pezzo, ma cercando con chi suonare e dove, e altre mille variabili di cui non ci si rende conto».
In ‘Presenza’, Sol Gabetta prova a scardinare la sequenza obbligata overture-solista-orchestra; ma lavora anche su novità scenico-teatrali – l’illuminazione della sala in base alle musiche – e ripensa altre ritualità, come quelle legate al pubblico, di norma ‘regolato’ da silenzi e applausi. «Introduco piccole variazioni che si applicano nei teatri, soprattutto nell’ambito dell’opera lirica, e mai quando si tratta di concerti sinfonici».
Da scardinare, per Gabetta, sono anche le abitudini che riguardano i musicisti: «Mi ha sempre colpito il poter essere coinvolta dal principio alla fine di un programma musicale, mentre da cent’anni è il direttore a prendere tutte le decisioni: quante prove vuole fare, con quale solista vuole suonare, se farà o non farà il bis. In tutto questo, per quanto bello sia, il ruolo del solista rischia di rimanere astratto».
Scardinare significa anche violare la ‘costellazione’ degli strumentisti: «Un tempo l’orchestra stava molto indietro e il solista metri avanti; se c’è un pianoforte, per una questione estetica che può anche risultare godibile alla vista, il violoncello gli sta di norma davanti, giusto al centro, una posizione nella quale mi ritrovo intrappolata in una nuvola di suono che mi priva di tanti dettagli. Così ho provato a cambiare posizione». Pertanto, in un concerto con pianoforte non troveremo mai Sol Gabetta al centro, davanti al piano, «ma di fianco al pianista, dove la connessione è possibile: io vedo le sue mani e lui non vede soltanto le mie spalle».
La posizione definitiva nella sala concerto, Gabetta non l’ha ancora trovata: «Un palco girevole? Magari, ma come fare? Pilotarsi con un joystick? Potrebbe essere molto pericoloso…». Ma forse nemmeno vuole trovarla: «In qualsiasi situazione della mia carriera, se avessi davanti a me un punto d’arrivo chiaro e preciso, la mia visione si sarebbe già spenta». In questo senso, «la mia intenzione non è di arrivare, ma di viaggiare. E un viaggio come quello di ‘Presenza’ si fa insieme, e porta a crescere non soltanto me, ma anche il rapporto orchestra-solista-direttore, aperti a nuove idee». Apertura di cui l’Osi e Poschner rappresentano per lei un unicum: «C’è molta gente rigida in giro, anche se rigidi lo siamo un po’ tutti, perché tra le nostre rigidità ci sentiamo sicuri. Gli esperimenti portano rischi, ma la grandezza sta proprio lì, altrimenti tanto vale ascoltarsi il concerto a casa. Il mio è un concetto circense: è l’atto che non si ripete, che è lì in quell’istante».
Osi/Luca Sangiorgi
Con Markus Poschner
Se non fosse arrivato il violoncello, Sol Gabetta avrebbe probabilmente fatto l’archeologa. «Confermo. E l’archeologa è effettivamente ciò che faccio quando vado a cercare i dettagli. Oggi sono ancor più le piccole cose che mi fanno piacere, e quando Markus (Poschner, ndr) dice che l’unica maniera che risulti interessante, nel suonare un repertorio che conosciamo a memoria, è fare questo tipo di lavoro, da archeologi appunto, mi trova in sintonia. Ma è importante che anche l’orchestra sia disposta a farlo, serve un’apertura di spirito molto grande, la sola che apra alla novità».
Come archeologa musicale, Gabetta si dice realizzata: «A quest’età mi sento nel momento più felice della mia carriera, con più esperienza, non ancora stanca di viaggiare, o del palcoscenico. Mi sento più stabile. Quando sei più giovane, mentre cerchi la tua posizione nel mercato musicale, mentre impari tanti nuovi pezzi, mentre ti realizzi a un livello più alto, tutto questo è fonte di stress». Non oggi. Salvo determinati casi: «Mio figlio ha cinque anni e ascolta il rock. Ci sono musiche, oltre a quella classica, che mi gratificano e altre meno. Molto ha a che vedere con la stanchezza e la musica di sottofondo, come quella che stiamo sentendo ora (‘Fix You’ dei Coldplay versione lounge, tipicamente hotel, ndr), m’impedisce di concentrarmi con chi parlo. È un lavoro doppio per la mia testa». Si fa presto a dire “torno a casa, ascolto un po’ di musica e mi rilasso”; vai un po’ a chiederlo a uno che ha fatto musica tutto il giorno. È così? «Non so. So solo che non avere musica di sottofondo a tanta gente fa paura e a me, al contrario, dà il tempo di pensare. Quasi sempre, quando viaggio, non esco mai del tutto dalla dimensione lavorativa, e mi piacerebbe tanto trovare sempre il ristorante in cui non c’è musica di sottofondo» (dice che in Italia ce ne sono un paio, li ha segnati in rubrica).
Lugano, in tutto questo, la aiuta. «La calma, la gradevolezza del luogo, l’essere una città a suo modo piccola in un Ticino comunque grande. I posti in cui si hanno troppe cose da fare ti privano della capacità di concentrazione, ed è anche per questo motivo che il prossimo festival, il “mio” festival, si tiene in un posto piccolo». È il Solsberg Festival, dal 29 giugno al 7 luglio, e il programma, a intervista finita, ce lo consegna il piccolo Leo, che a cinque anni ascolta il rock. Solsberg, l’insieme di Sol e di Olsberg, meno di quattrocento anime nel Canton Argovia (e meno musica di sottofondo).