Berlinale

Carlo Chatrian saluta Berlino con un Concorso degno di Locarno

Si apre il 15 febbraio una vera festa cinematografica che chiude al mainstream tanto ricercato da ogni altro Festival

Fino al 25 febbraio
(Keystone)
14 febbraio 2024
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Scorrendo la lista dei film in Concorso in questa Berlinale 2024, ultimo anno in cui Carlo Chatrian – affiancato fino alla fine da Mariëtte Rissenbeek – ha diretto la Berlinale, non si può fare a meno di pensare a una ricca composizione della competizione cui ci aveva abituato lo stesso Chatrian a Locarno. Si può dire che i cinque anni passati alla direzione di questo Festival siano serviti ad affinare la sua idea di cinema, ma soprattutto va segnalato come questi anni siano stati segnati prima dalla pandemia e poi dallo sviluppo di due momenti: uno di guerra, quello sviluppatosi tra Ucraina e Russia, e quello di una forte caduta civile e sociale esplosa con il diseguale fronte israeliano in cui una nazione ben definita affronta il deciso spauracchio di un’idea di Stato, quello palestinese, indigesto per l’ideologia che porta. Ecco allora che alla luce di questo nasce a Berlino, con questo Festival, il più indipendente pensare al cinema espresso dalla cultura europea negli ultimi vent’anni.

Ecologia, antifascismo, soprusi

Innanzitutto, c’è una chiusura al cinema mainstream ricercato da ogni altro festival ed esaltato dall’estremismo inimitabile di Cannes. In questa Berlinale, Chatrian si concede i giochi più fini, non solo scegliendo di inaugurare con ‘Small Things Like These’ del belga Tim Mielants, che si trova a ricordare i soprusi dei preti cattolici nella fedele Irlanda servendosi di quel Cillian Murphy in attesa di un Oscar per il suo essere protagonista del fortunato ‘Oppenheimer’, ma soprattutto per ricordare a Berlino del perché è diventato un Festival importante, nato com’era in una nazione frantumata dalla Seconda guerra mondiale. Ed ecco in concorso un film come ‘In Liebe, Eure Hilde’ del talentuoso Andreas Dresen che racconta di Hilde Rake, conosciuta anche come Hilde Coppi, antifascista ghigliottinata dai nazisti il 5 agosto 1943 nel carcere Plötzensee. Un film che pone un confine ineludibile al senso del Festival e all’idea del perché della Berlinale secondo Chatrian. Un’idea che si concretizza anche nella scelta dell’unico film statunitense in concorso, ‘A Different Man’ di Aaron Schimberg con Sebastian Stan, un film sul cinema, con un attore che perde la sua essenza nel voler piacere al pubblico. E interessante è il trovare in concorso due documentari, l’ecologista ‘Architectonÿ di Victor Kossakovsky, che si chiede in che case vivremo domani, e il profondo e attuale ‘Dahomey’ in cui Mati Diop si chiede del nostro rapporto con la Storia quando la nostra memoria è diventata sorda e afona.

Terre lontane

Quello di quest'anno è un Concorso che ci porta a viaggiare nel mondo, a cominciare dal futuro che fatichiamo a pensare. Come quello raccontato da Piero Messina nel suo ‘Another End’, in cui una nuova tecnologia reinserisce la coscienza di una persona morta in un corpo vivente; e come quello dell’atteso ‘L’Empire’ di Bruno Dumont, in cui nasce un bambino che… (idea messianica che sconvolge i mondi). Ma anche mondi geografici come quelli che in ‘Black Tea’ affronta Abderrahmane Sissako nel dire di una donna che abbandona il suo matrimonio in Costa d’Avorio per andare a cercare amore in Cina. Ci ritroviamo in Iran con ‘Keyke mahboobe man’ (My Favourite Cake) firmato a quattro mani da Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, un film che apre una frontiera ancora, quella di una 70enne che cerca un nuovo sentimento, un film importante in un mondo che invecchia. Ci ritroviamo in Tunisia con l’intrigante ‘Mé el Aïn’ (Who Do I Belong To) di Meryam Joobeur, ed è da notare come la maggior parte dei film nasca da coproduzioni, qui tra Tunisia, Francia e Canada; ben più strana la coproduzione tra Repubblica Dominicana, Namibia, Germania e Francia per ‘Pepe’ di Nelson Carlos De Los Santos Arias, e il Pepe del titolo è un ippopotamo.

Dentro e fuori

Tra i film in concorso più attesi: ‘Hors du temps’ (Covid-comedy) di Olivier Assayas e ‘Yeohaengjaui pilyo’ (A Traveler’s Needs) di Hong Sangsoo con l’immortale Isabelle Huppert. Dalla Svizzera in coproduzione con l’Italia arriva ‘Gloria’ di Margherita Vicario ambientato nella Venezia del 1800, in una vecchia e decrepita scuola di musica dove ragazze scoprono il pianoforte. In ‘Langue Étrangère’ di Claire Burger ritroviamo Chiara Mastroianni, tra Francia e Germania, e per ‘Shambhala’ di Min Bahadur Bham, ambientato in un villaggio dell'Himalaya, si è mossa una coproduzione tra Nepal, Francia, Norvegia, Hong Kong, Cina, Turchia, Taiwan, Stati Uniti, Qatar. È il cinema indipendente troppo dipendente. Ma a Berlino non c’è solo il Concorso: fuori di esso troviamo un altro film statunitense, ‘Spaceman’ di Johan Renck con Adam Sandler, Carey Mulligan, Kunal Nayyar, Lena Olin e Isabella Rossellini, per un viaggio interstellare. Tra i molti altri, il ritorno di Bruce LaBruce con ‘The visitor’, film che rilegge il Pasolini di ‘Teorema’, e il nuovo e atteso film di André Téchiné ‘Les gens d’à côté’. Non dimentichiamoci che questa è la Berlinale, una vera festa cinematografica.