Gianmarco Tognazzi a Bellinzona con una storia di teatro e insieme un tributo a un amico che non c’è più, ma che il 25 e 26 gennaio reciterà al Sociale
Prima di cominciare: preferisci Gianmarco oppure ispettore Blum? «Mi puoi chiamare tranquillamente Jimbo, il mio soprannome. Lo porto avanti con orgoglio da qualche decennio nonostante lo abbiano acquisito anche dei campioni olimpici come Tamberi». Campioni olimpici e tennisti. «Sì, ma Jimmy Connors è stato il primo, l’ispiratore, prima che scoprissi che pure Jim Morrison veniva soprannominato Jimbo. Diciamo che ci sono precedenti illustri».
Fresco di soggiorno bellinzonese per promuovere ‘Alter Ego’, la serie poliziesca Rsi presentata all’ultimo Castellinaria, Gianmarco Tognazzi torna all’ombra dei castelli per ‘L’onesto fantasma’ di Edoardo Erba, al Sociale il 25 e il 26 gennaio alle 20.45, storia di quattro attori e amici che si ritrovano in tre per l’improvvisa morte di uno di loro, Nubro. Se, dopo la perdita, Gallo (Tognazzi) ha avuto successo nel cinema, Costa (Fausto Sciarappa) e Tito (Renato Marchetti) hanno bisogno di lavorare e tentano di convincerlo a portare in scena un ‘Amleto’. Per Gallo, senza Nubro la cosa non ha senso; Costa s’inventa così di far recitare l’amico scomparso nel ruolo del fantasma.
Nello spettacolo, Nubro è Bruno Armando, attore morto nel marzo del 2020, il quarto di un gruppo di amici sul palco e nella vita, che recita in video in un atto d’amore per chi non c’è più e per il teatro tutto.
Domanda d’obbligo: più o meno dieci mesi dopo il primo ciak, cos’è stato ‘Alter Ego’?
Un’esperienza meravigliosa, personale e professionale, con tutta la troupe e la produzione Rsi. È stato un lavoro tecnicamente molto impegnativo, 11 settimane per 6 puntate da 45 minuti è un ritmo frenetico, e invece è stata straordinaria la calma con la quale abbiamo lavorato, e così la qualità fotografica. Lavorare a Bellinzona, dove torno con questo spettacolo, è una cosa che ho fortemente voluto perché sono molto legato alla città. Visti i risultati di ‘Alter Ego’, sia sulla piattaforma che su Rsi, spero in un proseguimento, per il piacere di lavorare da voi e per portare avanti Blum, personaggio al quale mi sento legato.
Ne ‘L’onesto fantasma’ conferite a Bruno Armando una certa forma di eternità, quella di essere in scena ogni volta che questa pièce verrà rappresentata, con o senza di voi…
Credo che questa eternità sia l’omaggio più grande che si potesse fare a un amico e un artista che avrebbe meritato opportunità assai più grandi di quelle avute in vita. È quanto abbiamo chiesto a Edoardo (Erba, ndr). Con Bruno abbiamo “fatto ditta” per 14 anni, venendo più volte a Bellinzona. ‘L’onesto fantasma’ non è solo un omaggio, una commemorazione, è un testo universale sull’amicizia, su come nel mondo del teatro si reagisce alla perdita, dove il teatro potrebbe anche essere una famiglia, una compagnia, una squadra di calcetto, la storia comune di chi perde un fratello maggiore e si chiede come sopportarne l’assenza. Serviva un testo che parlasse di noi senza che fossimo noi, che raccontasse tutto quello che ha caratterizzato il nostro percorso insieme. Edoardo ci è riuscito perfettamente mettendo al nostro servizio Shakespeare per parti minime che corrono parallele alla vicenda, ma anche dipingendo tre attori dai destini diversi: chi ha avuto successo e chi è rimasto al palo, le rivalità e i non detti, il doversi parlare in faccia per ripartire, come le amicizie vere impongono. Non è l’altarino creato ad hoc per raccontare noi stessi, è molto di più, lo vediamo da come il pubblico reagisce, anche divertendosi, che conosca la storia vera oppure no, spostata sui personaggi.
Gallo non ama i classici: anche questo è autobiografico?
Gli spunti sono quasi tutti autobiografici, distribuiti sulle nostre tre estensioni, i personaggi. Non è un mistero che non ho mai amato il teatro classico, Gallo dice che non gli è mai piaciuto, per come viene presentato, perché lo annoia. “Tutti sostengono che è la tragedia dell’indecisione e invece non succede un bel niente!”, dice dell’Amleto, con un paradosso.
Si parla spesso dell’esigenza di portare i giovani a teatro. I classici aiutano o servono ‘sacre scritture’ aggiornate?
Non lo so, non mi ci sono mai avventurato. Trovo però interessante la formula trovata da Edoardo, raccontare in chiave moderna il mestiere dell’attore infilandoci Amleto, cinque minuti di spettacolo su un’ora e mezza. Avvicinarsi al teatro può dipendere da tanti fattori che vanno al di là del titolo: in primis la fenomenologia del nome che va in scena. I cinque minuti di Shakespeare possono comunque spingere un giovane a confrontarsi con il nuovo, e i classici non sono una noia mortale come pensa Gallo, dipende da come vengono rappresentati. Più in generale, credo che lo spettacolo dal vivo difficilmente possa morire, perché diverso dall’accettare passivamente una scelta cinematografica, televisiva o tramite piattaforma. Lo spettacolo dal vivo ti pone in un’esperienza, appunto, viva e irrinunciabile per l’essere umano.
Dell’amicizia abbiamo detto, del teatro anche. Quanto alle perdite: in quella di un padre come il tuo, quanto o quando si percepisce la mancanza artistica?
Soggetti come Ugo hanno vissuto un periodo di cambiamento molto più forte del nostro, che è prettamente tecnologico, legato a un progresso che non si capisce se sia al servizio dell’uomo o viceversa. Ugo e gli altri hanno vissuto la rinascita di un Paese, la possibilità di sfatare tabù, hanno ricoperto un ruolo sociale così importante che la perdita artistica non è stata solo quella vissuta da chi vi era legato affettivamente. Nel caso di mio padre, anche per l’impegno della famiglia, la sua figura è costantemente ricordata, anche il suo essere stato un anticipatore: la cucina biologica, il concetto del chilometro zero, di cui parlava già a fine anni 60. È valso tanto per la tv che per la commedia all’italiana, nel privato con la famiglia allargata e in follie come ‘Ugo Tognazzi è il capo delle Brigate Rosse, la prima fake news (nel 1979 sul quotidiano ‘Paese Sera’, con tanto di foto di Tognazzi in manette, ndr), una rivendicazione del diritto alla cazzata, dell’andare oltre ma in buona fede. La gente ancora manifesta affetto nei suoi confronti; in parallelismo con Bruno, è quel senso di nostalgia di avere perso uno di famiglia. Nel caso di mio padre credo dipenda dal non essersi mai sentito o comportato come divo, ma solo come uno che aveva successo. E del suo successo erano più consapevoli gli altri di lui.
Grazie, a questo proposito, per essere Gianmarco Tognazzi e non avere mai fatto il verso al papà…
È un atto anche necessario, si è subito messi di fronte al pensiero ovvio del figlio d’arte, un confronto che è arrivato in età diverse. Sono paragoni che non esistono e, per quel che mi riguarda, non mi sono mai ispirato a lui e la mia non è mai stata una gara a essere “più bravo di”. Al contrario, è stato il saper gestire il tempo e le opportunità, che sono completamente diverse, in tempi diversi, in un panorama diverso, di fronte a un pubblico diverso. Se poi, involontariamente, la genetica porta fuori qualcosa di affine, l’omaggio diventa bello e onesto. Mi chiedono spesso “perché non rifai ‘Amici miei’?”: non lo rifarei mai per il rispetto dei capolavori che mio padre ha interpretato, e perché sarebbe stupido e poco rispettoso nei suoi confronti. Un conto è un omaggio fatto una tantum per affetto, un altro è l’usurpazione in nome della presunta legittimazione, in quanto figlio.
Gianmarco Tognazzi