‘Vorrei una voce’, monologo nato dall’incontro con le detenute messinesi che si raccontano attraverso Mina. Dall’11 al 13 gennaio al Teatro Foce
Non si sa se partire dalla bellezza della canzone, dalla grandezza della cantante, dall’originalità del progetto o dalla versatilità del protagonista dello spettacolo, una produzione Lac in collaborazione con Proxima Res. Partiamo con il titolo, ‘Vorrei una voce’, monologo scaturito dall’incontro dell’attore, regista e drammaturgo Tindaro Granata con le detenute di alta sicurezza della Casa Circondariale di Messina. Dall’11 al 13 gennaio, alle 20.30 il Teatro Foce ospita la prima assoluta: attraverso una manciata di canzoni dello sconfinato repertorio di Mina – interpretate in playback da Granata e tratte dall’ultimo concerto live della cantante, quello del 23 agosto 1978 sul palco della Bussoladomani in Versilia – le detenute raccontano il proprio mondo.
In ‘Vorrei una voce’, al centro della drammaturgia ci sono i sogni delle ragazze e quelli di Granata: “Perdere la capacità di sognare significa far morire una parte di sé”, dice l’autore nelle note di regia, un rischio che può essere tanto ‘carcerario’ quanto artistico.
Tindaro Granata: partiamo da Mina?
Ha attraversato più epoche, l’emancipazione femminile si deve anche al suo comportamento; rimase incinta di una persona separata in epoca in cui non esisteva il divorzio, fu cacciata dalla Rai, fece scalpore, ma aprì una strada nuova rispetto al modo di vivere del tempo. E poi la voce: interpreta qualsiasi cosa con uno stile inimitabile, dando peso alle parole, unica nel suo genere. Il fatto che sia scomparsa non è la cosa più originale, lo è il suo continuare a creare. Tutto questo mi ha ispirato quando sono stato invitato nella Casa Circondariale di Messina, e da grande amante di Mina quale sono, ho pensato che sarebbe stato bello lavorare con le sue canzoni, cosa che nessuno aveva ancora fatto in teatro.
‘Vorrei una voce’ è un verso de ‘La voce del silenzio’, brano di rara bellezza che a Sanremo 1968 fu un mezzo fiasco. Poi Mina la fece sua e la canzone divenne un evergreen. Per quello che è il soggetto dello spettacolo, nessun titolo meglio di questo…
‘Vorrei una voce’ è il mio voler dare voce alle ragazze che vivono in detenzione, in una struttura di alta sicurezza che per le ragazze significa trascorrere gran parte della loro esistenza al suo interno. Quello che stanno facendo è un percorso di rieducazione, di riqualificazione sociale, brutalmente detto. L’idea di poter fare uno spettacolo in cui io racconto le loro storie e l’incontro tra me e loro, entrambi abitanti di un carcere fisico, il loro e il mio, un piccolo carcere costruito da me e per me, quando non sognavo più.
Un Premio Ubu, un Hystrio, il ‘Mario Mieli’ e altri riconoscimenti. Perché, un bel giorno, Tindaro Granata ha smesso di sognare?
Non lo so come sia successo, forse succede a tutti, forse è il risultato di un percorso di crescita. Un giorno mi sono svegliato e non ho più sentito la gioia, né per quanto facevo al lavoro, né per ciò che vivevo in famiglia. È accaduto all’età di 41 anni, oggi ne ho 45. Non riuscivo a progettare, a scrivere; se prima vedevo il mio lavoro come un privilegio, quale il mondo dell’arte può essere, ora lo percepivo burocratizzato, con dinamiche che non riuscivo più a gestire e sopportare. Fino alla chiamata della Casa Circondariale.
Al mio arrivo, ebbi la percezione che il mio stato d’animo corrispondesse alla condizione in cui si trovavano le ragazze. Pensai: sono libero, ho quarant’anni, mi trovo nel mezzo del cammino della mia vita, per dirla con Dante, eppure non riesco a cogliere la gioia in quello che faccio. Mi resi conto lì dentro di come stessi buttando via momenti importanti. Forse c’entra anche questo particolare momento storico che non riesce a darci grandi prospettive e rende difficile crearsi un immaginario all’insegna della positività.
Il resto lo ha fatto Mina…
Sono cresciuto con l’amore smisurato per lei: entro in quel carcere in uno stato di insoddisfazione, costruisco questo progetto con le sue canzoni e Mina, tramite il figlio Massimiliano Pani, riesce a sapere che c’è una persona che in un carcere lavora con la sua musica: è stato come avere realizzato un sogno importante, bellissimo, e mi sono detto che andava raccontato affinché il pubblico avesse più consapevolezza su cosa significhi stare dentro un carcere, che non è soltanto reclusione e negatività, ma è anche tanta vita.
Mina è di Lugano, un salto al Teatro Foce ci starebbe, non credi?
Ce lo auguriamo tutti. Massimiliano ha visto un estratto video di quanto fatto a Messina, ci ha contattati, ci siamo incontrati via Zoom, noi e le ragazze del carcere, ed è stato come entrare a casa di Mina.
In Tindaro Granata, l’esperienza carceraria si unisce al tema della pedofilia in ‘Invidiatemi come io ho invidiato voi’, a quello della stepchild adoption in ‘Geppetto e Geppetto’, a quello dell’autismo in ‘Dedalo e Icaro’, in nome di quello che è definito ‘teatro civile’. Anche questo è un sogno?
Sono diventato autore di teatro mio malgrado. Nasco come attore, ma il non aver frequentato alcun corso di recitazione non mi consentiva di lavorare. Un giorno mi sono detto che avrei scritto io le cose da portare in scena, e nel momento in cui l’ho fatto, ho sentito naturale raccontare di qualcosa che mi apparteneva o che mi aveva toccato nel profondo. Ultimamente, parlando con la gente, mi rendo conto di come abbiamo davanti a noi un processo di degrado, comprensibile, tangibile, in tutti i campi. Mi pareva importante mettere alcuni puntini sulle i, oggi che stiamo perdendo il rapporto con il sacro, in senso lato.
Chiudiamo con l’inizio: ci racconti l’incontro con Massimo Ranieri, da cui tutto è cominciato?
È solo per lui che faccio l’attore, prima facevo il commesso. Ho lasciato la Sicilia 19enne e per due anni sono stato un marinaio su una nave della Marina Militare italiana. Una volta sbarcato me ne sono andato a Roma perché, visto che è di sogni che parliamo, il mio era quello di fare l’attore di cinema.
Venticinque anni fa, senza internet, a Roma non conoscevo nessuno, ero solo un ragazzino di campagna che potava gli ulivi con suo nonno, finito nella grande città; per mantenermi lavoravo in un negozio di scarpe e nel frattempo facevo corsi di recitazione. Un giorno, in uno di questi corsi mandarono tutti i maschi a fare un provino con Massimo Ranieri. Probabilmente mi consideravano un commesso a basta, perché nessuno mi disse niente. Venni a saperlo e ci andai da solo. Quando mi trovai davanti Massimo gli dissi che amavo la musica, ma che non sapevo cantare; misi in scena alcuni testi di canzoni come ‘Lu pisce spada’ di Domenico Modugno, facendo il pesce spada maschio che parlava con il pesce spada femmina. “Vorrei che tu venissi a lavorare con me”, mi disse Massimo. Il giorno dopo mi ritrovai co-protagonista del suo ‘Pulcinella’, con il mio ruolo trasformato da napoletano in siciliano.
Lo spettacolo successivo sarebbe stato un musical, io non mi proposi e lui mi chiese perché. “Massimo, non so cantare. Spero che ci rivedremo presto da qualche altra parte”, gli dissi. Lui rispose: “Sì, ci incontreremo da pari”. Per “da pari“ intendeva “da professionisti”, perché per tutta la compagnia del ‘Pulcinella’ io ero stato l’allievo, non l’attore. Quella frase mi fece capire che sarei potuto diventare un professionista.