Polacco di nascita, ticinese acquisito, è il Konzertmeister dell’Osi. Sarà solista al Lac il 9 novembre, con Poschner sul podio e Mönkemeyer alla viola
Col cuore in mano gli confessiamo di non esserci mai innamorati del violino per colpa di un compagno di classe che usava l’archetto come una sega da falegname; il suono, più che un suono, era un lamento. In questa esperienza del tutto personale, sia chiaro, Robert Kowalski non ha colpe. La sfortunata vicenda è servita solo a rompere il ghiaccio con il primo violino (o ‘Konzertmeister’) dell’Orchestra della Svizzera italiana, e a chiedergli come lui, invece, si sia innamorato del suo strumento, per sentirci rispondere quanto segue: «Ho scelto di essere violinista quando mi sono reso conto che in casa c’era un violino comperato da mia madre prima che io nascessi. Lei non sa spiegare perché l’abbia comprato, e io so solo che il violino era lì per me ed era chiaro che sarebbe stato il mio strumento. Destino? Forse no, magari sì».
L’occasione è l’Osi al Lac di giovedì 9 novembre alle 20.30, sul podio il direttore principale Markus Poschner nella Seconda Sinfonia di Bruckner, preceduto dal solista Nils Mönkemeyer alla viola nella Fantasia scozzese per viola e orchestra di Walter Braunfels. E Kowalski – nato a Danzica, Polonia, ma ticinese più che acquisito – ad aprire da solista in ‘Anahit’ per violino e 18 strumentisti di Giacinto Scelsi.
Robert Kowalski: Giacinto Scelsi è tornato più volte nei discorsi di Poschner presentando la stagione di Osi al Lac. Come dobbiamo intendere questo ‘trasporto’?
Non posso parlare per il direttore, ma non sarà certo la prima volta che dirige Scelsi, nel quale avrà trovato un messaggio musicale molto forte. Da parte mia, sono felicissimo di affrontare questo autore, ho avuto modo di suonare la sua musica in orchestra poche volte. È stata una sfida imparare questo pezzo, per la sua complessità, per la particolarità violinistica. È pensato per violini con scordatura particolare (si aprirebbe qui un dissertare di quinte e ottave che lasciamo agli esperti, ndr) che porta a imparare nuove distanze sulla tastiera, diverse da quelle che sento nelle dita da trentun anni a questa parte. Solo per questo pezzo, in un certo senso, devo imparare a suonare da capo, senza contare le microtonalità, i quarti di tono che la partitura prevede, difficoltà aggiunta.
Guardando invece all’intero programma?
Scelsi da una parte, con la sua idea assoluta del suono, e Bruckner dall’altra sono estremi sempre interessanti. Per un orecchio non abituato, Anahit suonerà ultramoderna, ma è un brano composto sessant’anni fa. È tutt’altro che nuovo, eppure è collocato in anni di avanguardia che lo rendono all’apparenza più estremo rispetto al repertorio detto oggi ‘nuovo’.
La invito a fare del ‘be-connected’ tra i nostri lettori: che ruolo è quello del Konzertmeister?
Premetto che ogni ruolo è ugualmente importante in orchestra. Queste figure di responsabili sono finalizzate al coordinamento di quel che accade sul palco. È un ruolo che ha sfumature differenti: io sono la spalla che si alza per accordare l’orchestra ma anche il prolungamento del pensiero del direttore. Il Konzertmeister fa sì che tutto ciò che si dicono direttore e orchestrali sia coordinato in un’unica voce. E affinché 60 persone circa possano sentire correttamente l’intenzione del maestro, è indispensabile una seconda figura guida. Poi ci sono le parti esposte, gli assoli, l’aspetto puramente violinistico, che è anche il contribuire alla creazione del suono dell’orchestra, alla sua intensità, al suo colore. Con altri capifila, inoltre, lavoriamo come un quartetto/quintetto esteso d’archi, di riferimento per una struttura più grande.
La sua data di nascita la colloca nei pressi di momenti cruciali della storia del suo Paese d’origine, la Polonia. Che ricordi ha di quei giorni di ‘Solidarietà’?
Sono nato nel 1985. Anche se ero piccolo, ricordo nitidamente di quando stavo in fila con mia madre davanti a un ufficio per avere i buoni necessari ad acquistare determinati prodotti. Ricordo l’atmosfera degli ultimi giorni di Comunismo ma anche quella della prima Tavola rotonda con Solidarność e il governo, la voglia di cambiamento, la speranza.
Quando ha lasciato la Polonia?
A 18 anni, per andare a Mannheim, in Germania, dove ho studiato con il grande maestro Valery Gradow. Non volendo interrompere il rapporto con lui, dopo gli studi l’ho seguito fino a Lugano, dove era insegnante al Conservatorio.
Quanto pesa lasciare casa propria?
Da un lato, è stata una scelta naturale, sapevo che se avessi voluto crescere come artista avrei dovuto lasciare la ‘comfort zone’. Da un altro lato sapevo, istintivamente, che avrei lasciato la Polonia, se non per sempre, quasi. Non è stato facile, lasciare la propria terra significa non soltanto allontanarsi da un mondo conosciuto ma anche aprire un nuovo capitolo di vita da soli, in un Paese con un’altra lingua e mentalità, la Germania in primis, non per forza facile.
Ho lasciato la Polonia 13 anni dopo la caduta del Comunismo, un anno prima che entrasse nell’Unione europea, dunque non nella libera circolazione delle persone ma con un’autorizzazione statale in mano. Non era ancora la Polonia che vediamo oggi, parte di un mondo dell’Ovest, era ancora un Paese con l’ambizione di poter far parte di una comunità, di prendersi quel posto naturale tra i Paesi europei aperti. Era un momento molto particolare, ho lasciato una Polonia diversa da quella che vedo oggi.
Ancora una domanda e le prometto che torniamo alla musica: qual è la Polonia che vede oggi?
La vedo in un altro momento particolare. Gli ultimi otto anni si è vissuto il pericolo di caduta in una strana sfera intorno alla quale già gravita l’Ungheria, con mosse dubbie e un sistema che stava per diventare finta democrazia. Tre settimane fa ero a Varsavia per dare il mio voto, che unito agli altri ha portato al cambiamento in meglio tanto sperato. È difficile togliere la libertà ai polacchi, che per tutto quello che hanno passato andranno sempre a comporre quella maggioranza democratica cosciente di quel che accade. Solidarność è nato a Danzica, io ero in classe con la figlia più piccola di Lech Walesa, ho respirato quel vento che in Polonia si dice soffiare sempre dal mare. Danzica è la città dei cambiamenti, dei tanti inizi, anche di quelli più tragici del XX secolo. È una città segnata, ma la cui appartenenza rende fieri.
Chiudo con parole sue dal video ‘A casa dei musicisti dell’Orchestra’, nei giorni del lockdown. La si ascolta suonare Brahms e poi rassicurare il pubblico: “Ogni giorno mi alzo e indosso l’abito da concerto, per non dimenticare l’adrenalina”…
La musica ha determinato tutte le mie scelte, sin da piccolo, è stata la mia spinta vitale. Ci sono tante altre cose nella vita e un musicista, per essere completo, prima di essere violinista deve essere artista, e prima ancora uomo. Io sto cercando di dedicarmi a questi valori quotidianamente perché alla fine, per quanto il concetto possa sembrare esagerato, in quanto artisti abbiamo una sorta di missione che è anche un privilegio, poter portare bellezza in questo mondo così frenetico che non si capisce dove stia andando. Siamo messaggeri, anche di una sola ora di meditazione quale può essere un concerto.