Per il direttore d'orchestra è ‘comunità’. Nel giorno del primo ‘Osi al Lac’ di stagione, il Maestro racconta (e si racconta)
Pensiero conclusivo. Alla fine di ogni chiacchierata con Markus Poschner, che il Maestro ti parli di Beethoven, Rossini, Elvis o Gustav Mahler, ti viene da scendere in strada a fermare il primo che passa, non importa se non suona uno strumento, basta che lo mimi, basta che faccia numero, per metter su un’orchestra. Perché l’entusiasmo trasmesso dall’austriaco alla guida dell’Orchestra della Svizzera italiana ti fa venir voglia di dirigere l’Eroica, convinto che sarebbe un successo.
L’inizio di questo articolo è forse un po’ troppo informale per un pezzo che parla di Classica. È ‘be connected’, il progetto dell’Osi che ‘umanizza’ l’Orchestra, l’alleggerisce dagli orpelli e quasi te la porta a casa. O vicino casa, come oggi alle 12.30 al Lac per il ‘Lunch with Osi’, pranzo e musica preparatori all’apertura della stagione di ‘Osi al Lac’: alle 20.30, nella Sala Teatro, si ripropone la collaborazione di Osi e Poschner con il Conservatorio della Svizzera italiana, questa volta nella Sinfonia n.1 (detta ‘Titano’) del sopraccitato Mahler, insieme ai Vier letzte Lieder di Richard Strauss, solista il soprano Erica Eloff. E mentre noi sogniamo l’Eroica, il Maestro si gode il momento.
«Non c’è nulla che mi motivi di più che suonare con gente giovane. Soprattutto con gli studenti del Conservatorio, giovani entusiasti, motivati, preparati, dotati di grande disciplina». È il loro terzo progetto insieme, stasera sarà è la Prima di Mahler, all’inizio fu la Nona e in mezzo La sagra della Primavera. «Questo repertorio è particolarmente difficile, appartiene a una ristretta rosa di esecuzioni che spingono l’orchestra al limite, e si può eseguire solo con giovani del livello degli studenti che abbiamo a Lugano».
Maestro Poschner, anche lei è stato un giovane studente. Com’è stato lavorare al fianco dei suoi Maestri?
Sono stato molto fortunato per aver potuto assistere Sir Colin Davis (1927-2013, ndr) e Sir Roger Norrington (vivente, ndr), figure totalmente differenti per qualità e personalità, ma entrambi musicisti puri e capaci di ispirare. Il nostro lavoro, come artisti, è quello di capire la misura del testo, di comprendere cosa vi stia dietro e cosa oltre. La partitura non è la musica, è al massimo una road map, un manuale che conduce al capolavoro, noi dobbiamo saper tradurre. Specialmente nel caso di Mahler, che ha composto tanta musica che non puoi scrivere, ma devi capire analizzando il fraseggio, il tempo. Per questa ragione, quando sei molto giovane, devi sapere che serve l’esercizio, anche molte ore al giorno, ma non di meno l’ispirazione, quella di chi ti sappia dire che in musica non ci sono limiti, che si tratta di cercare la verità e che l’obiettivo non è riprodurre un suono, ma liberare la musica e liberare noi, provando a capire cosa c’è nella testa del compositore. Spero che il mio lavoro aiuti gli studenti in questo processo e la necessità di non avere paura e di essere coraggiosi, prendersi tutti i rischi del caso per esprimere loro stessi.
Mahler torna ciclicamente nei suoi discorsi e nei suoi progetti: è un nome che tornerà anche nel suo futuro?
Mahler è sempre più che una semplice sinfonia, non importa quale. Soprattutto la Prima. Le sinfonie ci portano a confrontarci con noi stessi e ci portano a rispondere alla domanda su cosa sia l’arte. La sinfonia è uno specchio della nostra società, del nostro essere umani. Quello che fa Mahler è creare un cosmo che tanto ha a che fare con quel che viviamo nel nostro mondo. Mahler è un cielo blu sopra le nostre teste, e un secondo dopo è capace di aprire le porte dell’Inferno, è estremo come, d’altra parte, estrema è la vita. Ecco perché è ancora difficile capire ancora oggi Gustav Mahler.
Il debutto della Sinfonia N.1 fu un disastro, nessuno era in grado di capirla. Si arrivò a pensare che fosse falsa. Ai miei occhi Mahler resta uno dei compositori più moderni, perché è molto vicino alla nostra condizione personale, al nostro cuore, che da lui viene toccato ogni volta. Ascolti la Prima e ti devi scordare che è una sinfonia.
Che stagione sarà, la 23-24 di ‘Osi al Lac’?
È difficile dire. Non abbiamo un motto o un tema, non amo questo tipo d’impostazione, che ti limita. È un viaggio in un’area molto misteriosa, molte sono composizioni che si ascoltano raramente, che non fanno parte del repertorio mainstream. Amo la seconda Sinfonia di Bruckner, amo la musica di Giacinto Scelsi, un maestro. In programma ci sono tante cose che ho sempre voluto fare. Ci sono anche i grandi nomi, naturalmente, una pianista come Anna Vinnitskaya, o classici come Rachmaninov. Gli impulsi sono molti e credo vadano a comporre un buon caleidoscopio del mondo classico, ripeto, non mainstream.
Il ‘be connected’ continua: come procede l’avvicinamento tra ‘mondi lontanissimi’?
L’idea viene dalla convinzione che per un’orchestra, per quanto tecnicamente ineccepibile come l’Osi, non sia sufficiente suonare nelle sale concerti. Serve uscire e toccare altri luoghi. Sappiamo che è difficile per tante ragioni entrare in una sala concerto, per il prezzo del biglietto, perché non si conosce il compositore, perché non si sa come vestirsi. Ma non importa cosa suoniamo: che siano Beethoven, Scelsi, Brahms, Bruckner, Stravinskij, è sempre entusiasmo, passione, sono le emozioni provate da una comunità che si unisce, che mangia, beve e danza attorno al fuoco come si fa da 10mila anni a questa parte. Questo è il potere della musica da sempre, oltre i passaporti, le religioni e il colore della pelle. La musica è un linguaggio per tutti e chi fa musica, a mio parere, è responsabile nei confronti della società tanto quanto dovrebbe esserlo la politica. Siamo qui per unire la gente, che è il senso più profondo del fare musica.
Da uno a dieci, quando siete già ‘comunità’?
Non credo si tratti di stabilire una scala, un’unità di misura. In questo mondo frammentato nel quale ognuno vive nella sua bolla, non siamo più in grado di ascoltare il prossimo, perché lo temiamo e non vogliamo lo scambio. Non per questo io mi arrendo al pessimismo, non per questo credo nell’immutabilità delle cose. Il punto è non mollare, perché se non facciamo nulla, la gente sbagliata trae vantaggio dal nostro silenzio. La voce populista prende spazio e così le fake news. Credo profondamente nel portare la gente a guardarsi in faccia; se non è possibile andare alla sala concerto perché costa troppo, veniamo noi da voi, proviamo a raggiungervi. Se non facciamo nulla, invece, la scala sarà sempre 1. Fare comunità è un processo attivo, è nelle nostre mani, non puoi dire che non sei interessato. È l’unica chance che abbiamo.
L’Osi ha scelto definitivamente la via della doppia direzione, artistica e operativa, come avviene sempre più spesso in Europa: sente stabilità in questa soluzione?
Conosco Barbara Widmer (direttore artistico, ndr) e Samuel Flury (direttore operativo) da anni, non ho dubbi che formino il team perfetto per il futuro dell’Osi, perché sanno come si tiene oliato il motore dell’Osi, in ogni senso. Serve una visione, soprattutto per il nuovo direttore principale (Poschner lascerà l’Osi nel 2025, ndr), e il nuovo accordo sarà importante in chiave locale e internazionale. Serve sempre ridefinire gli obiettivi, è quello che abbiamo sempre fatto insieme. Sfortunatamente, spesso il discorso cade sempre sul budget, ma è il grande tema del mondo, non solo quello delle orchestre…