L'addio a Matthew Perry, 54 anni, protagonista, nel ruolo di Chandler, di uno dei telefilm più amati di sempre
“Non sono bravo con i consigli. Può interessarti un commento sarcastico?”. Oppure: “Ho adottato una nuova tecnica: non rispondendo al telefono, chi chiama penserà che ho una vita sociale”. Ma soprattutto: “Ciao, sono Chandler e faccio battute quando sono a disagio”. Converrà iniziare da qui, per spiegare a quanti si sono affannati a informarci sui social di non avere mai visto una puntata di ‘Friends’, le ragioni per le quali noi che eravamo giovani negli anni 90 siamo terribilmente dispiaciuti per la morte di Matthew Perry, annegato a soli 54 anni nella vasca Jacuzzi della sua casa a Los Angeles.
Per cominciare, c’era quel gruppo di amici, gli stralunati protagonisti di una delle fiction più amate che la storia della televisione ricordi. Erano talmente immaturi, ingenui, pieni di difetti, che le loro perplessità di fronte alla vita e al futuro, il loro girare a vuoto tentando di trovare pezzi di mondo e altri esseri umani in cui riconoscersi, i loro patetici e tragicomici sforzi di diventare sé stessi erano, in fondo, anche i nostri. Ridendo delle loro goffaggini non desideravamo essere come loro, come invece ci accadeva con supereroi, detective infallibili e padri di famiglia che non sbagliavano mai, ma con loro.
E forse nelle nostre instabili comitive siamo riusciti, qualche volta, a ricreare quel clima di confusa ma sincera solidarietà che teneva incollata la nostra generazione davanti ai teleschermi; ci siamo aggrappati ad amici che ne capivano meno di noi, ma che si sarebbero tagliati un braccio pur di aiutarci; abbiamo inanellato disastri e figuracce quando sognavamo il grande amore; abbiamo perso di vista da un giorno all’altro, senza nemmeno rendercene conto, persone che ritenevamo importantissime; abbiamo trascorso nottate insonni a parlare del senso della vita con perfetti sconosciuti; abbiamo praticato la religione del tirare tardi e aspettare il mattino; abbiamo omesso, in telefonate ai genitori sempre più brevi e più vaghe, tutti i particolari che a noi stavano a cuore e che ci sarebbero costati la riprovazione familiare; insomma, i ragazzi di ‘Friends’ eravamo noi, coi nostri vent’anni portati così, come si porta un maglione sformato su un paio di jeans.
E Chandler Bing, in quel gruppo che ci faceva da specchio, era il più imperfetto di tutti, in una società che esalta la perfezione e condanna esitazioni, debolezze e fallimenti: cinico e sarcastico nei momenti sbagliati, pronto a intenerirsi per un nonnulla, a inventarsi continue insicurezze per dubitare di sé e reclamare affetto, a piangere sulle spalle dell’amico Joey, a dire cretinate e, con un grande sforzo, a chiedere scusa. “Sono più le cose stupide che dico prima delle 9 del mattino di quelle che la maggior parte della gente dice in un giorno intero”: nelle gaffes di questo Holden adulto, imborghesito, pasticcione e puerile, ritrovavamo le nostre, che lasciavamo emergere, senza avere la minima idea di cosa fare per non ripeterle, in sedute di autoanalisi collettiva che improvvisavamo imitando i sei ragazzi di Manhattan.
E, anche se non avevamo un locale come il Central Perk, con un divano da sei posti miracolosamente sempre libero, bivaccavamo nelle rispettive case, che erano in realtà topaie da studenti, arredate con mobili di risulta, fornite di giochi da tavolo e di un televisore minuscolo e di un frigo pieno di bevande gassate. Eh già, perché non comunicavamo con i messaggini, le videochiamate, le foto e i vocali da condividere in tempo reale: noi ci incontravamo, ci parlavamo guardandoci negli occhi, stavamo sempre insieme, senza ritoccare i volti, le parole, i pensieri. Come i credibilissimi personaggi di ‘Friends’, di cui Chandler era il più vero e il più immediato perché il povero Matthew Perry vi si identificava totalmente: “come se qualcuno avesse rubato le mie battute”, aveva ammesso, “copiando il mio modo di parlare, fotocopiando la mia visione statica della vita, ma spiritosa”.
Identico era anche il desiderio, inappagato, di un po’ di normalità (“Ho 29 anni, dannazione. Voglio sedermi sul divano, guardare la televisione e andare a dormire a un’ora ragionevole”). La vita con Perry non era stata gentile: pur avendogli dato il successo e la ricchezza, non lo aveva preservato dalla dipendenza da droghe e alcool. “Ho iniziato a bere a 14 anni”, raccontava nell’autobiografia. “Mi stendevo nel prato e mi sentivo in paradiso. Pensavo che la gente normale si sentisse così tutto il tempo. A 18 anni ero costantemente ubriaco”. Troppo, perché la vita non decidesse di presentargli il conto, lasciandoci un po’ più soli e più vecchi, ora che il tempo ci usura e ci stritola in ogni giorno che passa correndo.