In ‘Ex Machina’ dell'iraniano Arash Safaian, le percussioni diventano un pianoforte. Giovedì 12 ottobre allo Stelio Molo, con l’Osi diretta da Samy Moussa
Per Fabian Ziegler, star svizzera delle percussioni, quella di domani a Besso sarà una prima con l’Osi. Già conosce, invece, Samy Moussa, che l’orchestra la dirigerà e che, a sua volta, ben conosce l’iraniano Arash Safaian, autore della partita ‘Ex Machina’. «Cosa molto importante», questo conoscersi, per Ziegler che allo Stelio Molo, con le percussioni davanti a tutti, sarà protagonista della composizione commissionata dall’Orchestra della Svizzera italiana e dal Musikkollegium di Winterthur, dove si è ascoltata per la prima volta lo scorso anno. Una volta conclusa la suddetta partita per percussioni e orchestra, sarà la volta delle Danze ungheresi di Brahms.
Il 28enne Fabian Ziegler arriva a Lugano anche in nome del be-connected, l’Osi che sposa nuovi mondi e modalità. E il giovane fonde classica ed elettronica, usa le percussioni come synth (nei pattern del cupo ultimo album ‘Modern Gods’) e unisce elementi visual che portano l’esecuzione nei pressi della performance multimediale. A ‘Modern Gods’, passando per ‘Gods, Rhythms, Human’ (2021, l’opera prima) arriveremo. Sulle poltroncine dello Stelio Molo, a prova ultimata, partiamo dall’inizio…
Fabian Ziegler, le riporto il racconto di una percussionista: “Nel requiem di Mozart non faccio nulla per tutto il tempo. Ho un colpo alla fine del pezzo, se lo sbaglio, mando all’aria tutto”. Come vive il suo ruolo all’interno dell’orchestra e come la dimensione solistica?
Nell’essere solista mi aiuta sapere come ci si senta a suonare all’interno dell’orchestra. L’episodio che lei indica è pertinente, ma non produce nulla di frustrante. Piuttosto, da solista comprendi quanto sia difficile quel ruolo. Perché è vero che può capitarti di suonare poco, ma ogni volta che suoni, e in qualsiasi momento del pezzo tu lo faccia, tutti possono sentirti, non puoi nasconderti. È esperienza diversa dal violino, che in orchestra è insieme a più musicisti che suonano lo stesso strumento e la stessa parte.
Guardando all’aspetto solistico, è interessante vedere come il ruolo del percussionista sia cambiato in un tempo recente, se comparato al pianoforte, per esempio. L’evoluzione si deve a gente come Peter Sadlo, Evelyn Glennie, Martin Grubinger, grandi strumentisti che hanno lavorato duramente affinché le percussioni guadagnassero un proprio status solistico.
Quando e come è cominciata per lei? Quando ha sentito di voler essere solista?
Mio padre dirigeva diverse formazioni di fiati, ho visto tanti strumenti diversi, ma le percussioni mi hanno attratto subito. A 13-14 anni ho capito che avrei studiato musica, ho cominciato a farlo nel 2014 e due anni dopo mi sono ritrovato in ambiti orchestrali, ma affascinato dalla musica da camera e dal ruolo del solista. Tra il 2015 e il 2016, Martin Grubinger ha insegnato a Zurigo e la cosa è stata decisiva perché io seguissi la sua strada, ma molto hanno fatto anche professori straordinari come Klaus Schwärzler e Benjamin Forster, percussionista e timpanista della Tonhalle Orchester, o il marimbista Raphael Christen, una varietà di esperienze dalle quali ho attinto.
Parlando di percussioni, la mente va di norma prima all’aspetto ritmico che a quello melodico, rappresentato da strumenti quali vibrafono, marimba. Lei da quale versione della percussione è stato attratto?
All’inizio da quella ritmica, e con me anche altri compagni di studio. Mentre il concerto di domani è quanto mai focalizzato sulla parte melodica dello strumento percussivo, a partire dal fatto che l’autore non ha voluto aggiungere altre percussioni, rendendolo assai simile a un piano concerto. Credo che ‘Ex Machina’, anche in chiave melodica, rappresenti un’aggiunta preziosa al repertorio esistente.
Tempo fa le chiesero collegamenti tra il suo lavoro e la scienza, o altre discipline. Lei disse che se proprio fare il percussionista deve somigliare a qualcosa, allora è sport…
Confermo, ma non perché voglia essere più veloce di altri, quanto per la fisicità degli strumenti. Negli ultimi 2-3 anni mi sono reso conto che avrei dovuto lavorare non solo sulla musica ma anche sul mio corpo. Sono ricorso più volte alla fisioterapia. La connessione con lo sport, per un ‘malato’ di sport quale io sono, sta anche nella ricerca di ottenere sempre risultati migliori. E se ti eserciti 7-8 ore al giorno, non puoi non pensare alla fisicità di questi strumenti.
E al peso…
Sì, il loro trasporto è un altro dei problemi fisici. ‘Ex Machina’, in questo senso, è ottimo perché non prevede tanto hardware e lavoro di montaggio e smontaggio.
‘Modern Gods’, il nuovo album, visti anche gli episodi dal vivo, può definirsi multimediale. Come arriva l’elettronica nella sua musica?
Si deve a John Psathas, musicista neozelandese con il quale collaboro da circa sei anni. Poco prima della pandemia scrisse per me ‘RealBadNow’, un pezzo per percussioni, elettronica e visuals, originariamente per pianoforte e violoncello, e adattato poi per pianoforte, marimba, vibrafono. Ancora prima, credo, arrivò da lui ‘Halo’. Gli dissi che sarebbe stato bello avere da lui un concerto con l’elettronica e non con l’orchestra, e lui produsse ‘View From Olympus’, una delle sue cose più grandi. L’idea di suonarlo in forma di recital, con l’aggiunta di una pianista, Akvilé Silekaité, per puro caso è diventata decisiva in un momento come quello del lockdown: due persone e l’elettronica.
La copertina di ‘Modern Gods’, tutta uomini e smartphone, è almeno inquietante. È la sua idea dei tempi moderni?
Molto di ciò che sta accadendo oggi credo che possa preoccupare la mia generazione. Anche se la musica non è politica, sento che possa fare da tramite per determinati argomenti, rendendo chiare cose che non puoi dire faccia a faccia. L’album è ovviamente basato sulla società odierna, su questa idea di tracciamento cui non ci si può sottrarre. ‘View From Olympus’ è ispirata dagli dei, che un tempo vedevano tutti, cosa che oggi fa la tecnologia. Va bene che la copertina crei inquietudine, non volevamo che fosse solo uno spazio per stampare le nostre facce.
‘Nell’antichità alle persone non era consentito contraddire gli dei. Oggi, alle persone non è consentito contraddire i propri follower’. È scritto sul suo sito. Lei è una persona social?
Lo sono, e credo che per un musicista non sia un problema. Se guardo allo sport, invece, se penso al calciatore che ha avuto una brutta giornata e a quanta pessima comunicazione riceve dai suoi follower, tutta quella pressione mi preoccupa. Anche io a volte mi chiedo cosa sia il caso di postare. Trovo invece costruttiva la pressione di un pubblico in sala, che ti aiuta in molti casi a rendere di più e meglio. Vedere la gente in faccia aiuta, e anche sapere che possono prendere qualcosa dal concerto. Credo che parte del nostro lavoro stia nel donare sensazioni, e chi sceglie di assistere a un concerto lo fa anche per staccare dalla quotidianità.