A Vicenza, orchestra senz'anima diretta da una Beatrice Venezi corretta, ma senza interpretazione. Brilla Drusilla Foer, nel solco di Paolo Poli
Basterebbe il teatro Olimpico di Vicenza, la sua strabiliante bellezza è da sola grande e irripetibile spettacolo, opera ispirata di un Andrea Palladio giunto alla fine della sua vita. Siamo nel per lui fatale 1580: come un cigno, canta con questo Teatro il canto più bello. Ed è in questo luogo che il regista Giancarlo Marinelli ambienta la sua visione di un’opera altrettanto magnifica che è l’‘Histoire du soldat’ che Igor Stravinskij musicò nel 1918 su un libretto-testo che il grande scrittore svizzero Charles-Ferdinand Ramuz aveva tratto da due racconti: ‘Il soldato disertore e il diavolo’ e ‘Un soldato libera la principessa’, ispirati vagamente al mito di Faust e appartenenti a una raccolta di fiabe popolari russe di Aleksandr Nikolaevič Afanasiev, pubblicata fra il 1855 e il 1864.
A tal proposito scriveva Stravinskij: “Ho concepito la prima idea dell’Histoire du Soldat nella primavera del 1917, ma non ho potuto approfondire l’argomento perché intento alla stesura de Les Noces e a realizzare un poema sinfonico da Le Rossignol. Il pensiero di comporre uno spettacolo drammatico per un teatro ambulante m’era venuta alla mente fin dall’inizio della Prima Guerra Mondiale. Il genere di lavoro cui pensavo doveva esigere un organico di esecutori semplice e modesto al punto da permettere una serie di allestimenti in una tournée nelle piccole cittadine svizzere, ed essere altrettanto chiaro nel suo intreccio in modo che se ne afferrasse facilmente il senso. Il soggetto mi venne dalla lettura di quella novella di Afanasiev che racconta del soldato e del diavolo […] lo schema del lavoro è da attribuirsi ad Afanasiev e me, perché il testo definitivo è di Ramuz, mio grande amico e collaboratore, a fianco del quale lavorai attentamente, traducendogli riga dopo riga il mio testo».
Ed ecco il racconto di un soldato che torna in licenza al villaggio dove lo aspettano la madre e la fidanzata. Sfortunatamente il diavolo ha messo gli occhi su di lui, e promettendogli ricchezza gli chiede in cambio il violino che porta gioia alla sua anima. Il nefasto patto lo tiene lontano da casa per tre anni, tutti lo credono morto, la fidanzata è sposata con figli, la sua ricchezza è maledetta. Una speranza gli viene dalla possibilità di guarire una principessa, per questo riesce a riconquistare il violino dal diavolo, e felice si gode l’amore della principessa. Ma questa gli chiede di conoscere sua madre, inutilmente lui le dice che è al di là dell’invalicabile frontiera, lei insiste e il diavolo lo aspetta per l’eterna dannazione.
Il regista Peter Sellars disse che ‘L’histoire du Soldat’ è l’opera di un profugo sul tema dell’essere profughi. Stravinskij e Ramuz erano due profughi, due esuli: il primo un compositore fuggito dalla Russia a mani vuote; il secondo uno scrittore autoesiliato nella propria Svizzera. Un tema affascinante come il coraggio di Stravinskij di comporre un’opera senza canto, con un organico da complesso jazzistico, un’opera che sfida economicamente il paludato mondo morente del melodramma e la crescita del mercato cinematografico. Un’opera da strada – attenzione! – non teatro da camera, ma l’antico teatro dei cantastorie, dove la narrazione è affidata a una persona e la scena, qui, viene occupata da soli quattro personaggi muti.
“La scelta degli strumenti per L’Histoire fu influenzata da un importantissimo evento della mia vita in quel periodo: la scoperta del jazz americano… L’organico si richiama a quello della banda jazz in quanto ogni famiglia strumentale – archi, legni, ottoni, percussioni – è rappresentata dai suoi estremi, nel registro acuto e nel registro basso. Inoltre gli stessi strumenti venivano impiegati nella musica jazz, eccetto il fagotto, che, secondo me, stava per il sassofono”. Ecco l’idea di Igor Stravinskij per la musica, ed ecco quello che è mancato alla serata all’Olimpico, dove la piccola e brava orchestra era guidata con attenzione alle note, ma senza anima, da una Beatrice Venezi corretta, ma senza interpretazione, così banalizzando Stravinskij. Lo stesso grande applauso, più meritato, quello a una bravissima Drusilla Foer, voce narrante, non scevra alla lezione dell’indimenticabile Paolo Poli, capace, lei, di fini emozioni. Di maniera la ripetitiva coreografia di Andrè De La Roche, dove emergeva nel ruolo del protagonista un bravo e intenso Antonio Balsamo.
Alla fine resta la curiosità di vedere questo spettacolo in strada, luogo per cui fu pensato, mentre una guerra finiva e una pandemia, quella della febbre spagnola, stava come un diavolo scavalcando le frontiere.