Dopo l'esordio ‘in casa’ a Verscio, il 28 maggio a Lugano il lavoro di fine Bachelor dell’Accademia Dimitri calca il palco del Lac
L’inizio dell’estate è per molti giovani un periodo di bilanci e aspettative, tra test, esami e vari tipi di consegne scolastiche, certo motivo di timore ma anche di consapevolezza, per la possibilità di comprendere il livello cui si è giunti in un determinato ambito. Vale anche per il lavoro collettivo di fine formazione delle studentesse e degli studenti del terzo anno del Bachelor of Arts in Theatre dell’Accademia Dimitri, che consente di portare in scena uno spettacolo con diverse repliche in tutta la Svizzera, quest’anno sotto la guida esperta di un regista, coreografo e ballerino affermato quale è Philipp Egli. ‘Spring Fever’ è il nome della pièce, basata sul balletto ‘Le Sacre du printemps’ di Stravinskij, che approda al Lac domani alle 20.30 dopo l’esordio casalingo al Teatro Dimitri di Verscio. Abbiamo incontrato il regista per anticiparne il contenuto e farci raccontare la sua esperienza con le giovani promesse del teatro.
Philipp Egli: come è nata la collaborazione con il teatro Dimitri e quale è stato il suo approccio creativo?
Già un anno fa, quando sono venuto a Verscio per essere nella giuria del master, si era palesata l’idea di uno spettacolo con gli studenti, una proposta che mi è subito piaciuta e mi ha suggerito il magnifico ‘Sacre du printemps’ di Stravinskij, forse a causa della sua natura entusiasta, giovane, estrema, proprio come la primavera, che è la gioventù che stanno vivendo questi studenti. ‘Le Sacre du printemps’ è una composizione vecchia cent’anni che fece scandalo al tempo della sua uscita. È di breve durata, solo trentacinque minuti, quindi ho dovuto pensare a una soluzione per riuscire ad adattarla. ‘Spring Fever’ viene dal tedesco “frühlingserwachen”, che significa svegliarsi in primavera: mi piaceva la traduzione inglese perché contiene la parola febbre, parola duplice che da un lato richiama l’attesa, con passione e impazienza, e dall’altro la malattia, il sentirsi male, proprio come questa musica che passa da un estremo all’altro, quasi come uno schiaffo.
Abbiamo ragionato con gli studenti per capire cosa significasse per loro la primavera, e tutti e tredici si sono messi in gioco. Concedere a ognuno lo spazio ha costituito una sfida per me, perché quando creo uno spettacolo, normalmente, il mio concetto è centrale e sono libero di gestire la presenza sul palco di ognuno. Ma un progetto scolastico è differente, è un’opera di gruppo. I ragazzi hanno dato l’anima, hanno fatto pochissime pause e, anche se non ballavano proprio tutto il tempo, erano sempre presenti e attivi, dando opinioni e concedendo fiducia. Ho amato il gruppo, il loro approccio e come hanno seguito il lavoro, mi sento completamente sicuro di mostrarli oggi per settanta minuti. Ci sono state parti delicate da gestire, ma i ragazzi stessi mi hanno anche aiutato a venirne fuori.
Qual è il processo di adattamento di un’opera inusuale come il ‘Sacre du printemps’?
È un tema artistico che sto trattando ormai da dieci anni. Penso fosse il 2014 quando feci il mio primo concerto-danza. Da sempre mi interessa molto la coreografia e come i corpi esistono, si formano, si modellano e si muovono nello spazio. Non è una mia invenzione, ma ne sono ancora affascinato, anche perché provengo dal mondo dell’architettura e lo spazio, per me, ha tanto potenziale in ottica di movimento. In più, gli spartiti stessi sono forme di architettura: un compositore non scrive solo una melodia, scegliendo gli strumenti che più gli piacciono; piuttosto, costruisce qualcosa di complesso. Faccio questo esempio: non posso dire di capire perfettamente la partitura di Stravinskij, ma sono in grado di leggerla, trovare similitudini, pattern e riverberi. In questa versione, in particolare, non abbiamo una donna che è, comunque, una vittima sacrificale come nella storia originale, ma diventiamo noi, in un certo senso, le vittime di una partitura da percorrere, per scoprire diverse possibilità di messa in scena. In una sezione, per esempio, contiamo, proprio perché al tempo della ‘prima’ i musicisti e danzatori si lamentarono dell’irregolarità della musica, fatto assai inusuale per l’epoca. Oggi che siamo più abituati a cose complesse, invece, abbiamo potuto discutere e confrontarci sui numeri, per creare infine una scena che, personalmente, trovo molto divertente.
Come è stata la sua esperienza nel lavorare con i giovani?
Ho trovato in loro molta apertura, non facevano troppe domande e si concentravano sulle prove, particolare fondamentale per capire chi mi trovo di fronte, visto che non si tratta di persone scelte per un pezzo di danza contemporanea, bensì di studenti di teatro con molte altre capacità. Suonano strumenti, cantano, recitano e sanno fare acrobazie, ci sono delle differenze con il mondo della danza contemporanea, e per integrarmi al meglio avevo bisogno di elementi che mi dessero del materiale proprio, per rimaneggiarlo insieme e iniziare a costruire.
Non tutti erano allo stesso livello, quanto a tecniche di danza. Lo definirei un puzzle da risolvere, per la maggior parte del tempo divertente ma anche duro e impegnativo, confermato anche dalle parole dei ragazzi che, dopo due settimane, si sono resi conto della fatica fisica, non abituati a un approccio così diretto e intenso. Sono sicuro che sia stata in generale un’esperienza molto formativa per tutti, anche grazie alla mia assistente Mara Peyer, con cui ho già lavorato in passato, grande persona e ballerina abile nell’insegnare molte tecniche di danza e di riscaldamento. È lei che mi ha concesso la possibilità e il tempo di osservare il cast dall’esterno.
Philipp Egli