Sul palco vodese Jazz Lab, l'11 luglio sono saliti Mega, Jacob Banks e i Teskey Brothers. Per non restare attaccati alla musica dei vent'anni…
Montreux – Un po’ come quelle attrici che dicono di aver iniziato la carriera per caso, perché avevano accompagnato un’amica al provino, anche io sono arrivato al Festival di Montreux per vedere Norah Jones e Mavis Staples e me ne sono andato con nella testa e nelle orecchie la musica di qualcun altro, a dimostrazione che un sacco di ottime canzoni e voci in grado di squassarti dentro restano sepolte, nelle radio e nelle playlist, sotto quella corazza inscalfibile chiamata abitudine: nostra e di chi sceglie per noi.
Sul palco minore del Jazz Lab si sono esibiti – la stessa sera, uno dietro l’altro – Mega, Jacob Banks e i Teskey Brothers: nomi che dicono poco o nulla perfino a buona parte degli addetti ai lavori. La prima, Mega, condivide il nome d’arte con altri cinque musicisti, non ha una pagina Wikipedia, ma è su Spotify. Le prime due cose le so perché dopo ho cercato qualche informazione in più su di lei (senza trovarle, ad esempio l’età), la terza la so perché non ha fatto altro che ripeterlo, tra un brano e l’altro, con l’aria elettrizzata di chi può dire una cosa bella in mezzo a tanta gente. Nel dubbio, accanto al chitarrista (l’unico ad accompagnarla sul palco, e ti chiedi “ma basterà?” È bastato), ha piazzato uno di quei cartelli con le lettere semovibili che puoi comprare per pochi franchi all’Ikea in cui ha scritto il suo nome e il contatto Instagram.
Mega è il suo nome, quindi, e Mega è una minuta, apparentemente timida ragazza inglese di origini ugandesi con una classe innata e una voce di quelle che ti portano lontano. Dice che si ispira ad Alicia Keys e Lauryn Hill, tanto per volare basso, ma anche a India.Arie (consiglio: ‘Back to the Middle’) e Chaka Khan (quella della versione originale di ‘I’m Every Woman’). Quando ha iniziato a cantare, anche i più distratti, al bancone del bar, si sono girati verso di lei, quando poco dopo ha intonato la sua unica vera hit (finora non ha nemmeno pubblicato un intero album, ma solo singoli ed Ep), ‘Chariot’, erano (eravamo) tutti lì a sperare non finisse mai, per la voce, e per il ritmo ipnotico della chitarra.
Altre canzoni, come ‘All Day Long’ e ‘Box of Regrets’ contengono semi di musica africana che germogliano qua e là. Quando se ne va, emozionata, che non sa se andarsene o fare un bis, certifica quell’aria da una che non dovrebbe essere nemmeno lì, che poi è anche la verità. Mega ha sostituito all’ultimo momento Joy Oladukon, l’artista che di solito apre i concerti dei Teskey Brothers.
Quando è il momento di Jacob Banks, le vibrazioni che arrivano dal palco si fanno più forti. Anche lui britannico, ma nato in Nigeria (dove ha anche vissuto nei primi anni della sua vita), Banks ha esattamente quella voce che gli ascoltatori più pigri – fermi a rigirarsi nelle mani sempre gli stessi dischi – aspettano da tempo senza sapere che è già qui ed è sui palchi dei concerti dove vanno i giovani (che, tra l’altro, rispetto al pubblico mediamente più âgé di Jones e Staples, non tengono il cellulare continuamente puntato contro il palco), quelli che molti provano a far passare per gente che di musica non capisce niente.
©FFJM 2023, Emilien Itim
Jacob Banks
Nella voce di Banks passa tutta quella tradizione della musica nera rivisitata in chiave moderna, dove la batteria picchia (ma non sempre) e la chitarra si concede il lusso di attraversare quattro-cinque generi diversi insieme a suoni che non escono da veri e propri strumenti. In Banks c’è il suono della Motown se la casa discografica di Detroit non fosse stata fondata negli anni Sessanta, ma nel nuovo millennio. La voce sta là dalle parti di Ray Charles, James Brown e B.B. King. Confina con tutti, ma non imita nessuno. Tra le voci nere di oggi c’è chi lo paragona a Gregory Porter (ma lui è un Porter scamiciato) e a Leon Bridges (quello di ‘River’ e ‘Coming Home’, un altro fenomeno), che però si sporca meno le mani. D’altronde Banks è un fan di Kanye West, non solo dei mostri sacri della golden era. Quando parte con il ritornello di ‘Unknown (To You)’ il gioco delle somiglianze diventa inutile, lo stesso vale per ‘Chainsmoking’ e ‘Unholy War’. Il resto lo fa lo stile, con quella maglia smanicata verde acceso con la scritta ‘Ice cream’ in rosso. La musica gratta, a volte quando meno te l’aspetti, aggiungendo un contrasto al suono ‘black’ più classico. E anche lui alterna urla incatramate alla tenerezza di una canzone dedicata alla nonna morta. Quando saluta manda delle specie di piccole benedizioni laiche che si protraggono oltre, come se dalle mani dovesse inviarci uno a uno qualcosa.
I Teskey Brothers sono invece australiani, originariamente due, i fratelli Josh e Sam, cresciuti in una fattoria fuori Melbourne. Hanno registrato i loro dischi su un vecchio registratore a 24 tracce perché “suona meglio”. La loro ‘Pain&Misery’ sembra uscire da un radio gracchiante degli anni Settanta, le copertine dei loro dischi pure, e un po’ anche loro, in versione superband, con due donne ai fiati, un bassista con lo stile e il baffo da attore porno degli anni della censura e il cantante, Josh, che sembra un ibrido tra il Dawson di Dawson’s Creek e un Kurt Cobain a cui hanno proibito di alzare troppo il volume. Ogni pezzo è un tuffo nel passato, ma scritto oggi: ci rivedi James Taylor, i Buffalo Springfield, Otis Redding.
Le loro ‘Take my Heart’, ‘Crying Shame’ e ‘Carry You’ sono degne eredi di quella tradizione che va dal country al folk, dal blues al soul, che sa di festa di paese, ma di un paese con un gran gusto.
©_FFJM 2023, Marc Ducrest
The Teskey Brothers
E allora, mentre vedi che la serata se ne va senza un colpo a vuoto, ripensi a quella frase che – prima di impantanarsi nelle bacheche social motivazionali – aveva un senso: “Quanto è passato dall’ultima volta che hai fatto una cosa per la prima volta?”. E il nostro restare attaccati alla musica dei vent’anni che era “sempre meglio” si merita una domanda a specchio: “Quando sarà la prima volta che ascolteremo una cosa per l’ultima volta”? Ringraziandola, certo, ma poi accantonandola, dedicandoci finalmente ad altro. Che è tanto, basta andarselo a cercare.