La recensione

Nel Lac strapieno, il fascino di ‘Notre Dame de Paris’

Sette Tir a Lugano per un’opera da 8mila repliche, lievemente adattata all’attualità. Tutti all’altezza gli interpreti, dopo un quarto di secolo

Fino al 12 giugno
(Francesco Prandoni)
9 giugno 2022
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È ambientato nel tardo Medio Evo (1482 per la precisione) e fu pubblicato nel 1831. Eppure ‘Notre Dame de Paris’ mantiene intatto il suo fascino, adattandosi – purtroppo un po’ paradossalmente – all’attualità. Basti pensare al coro iniziale: "Siamo stranieri clandestini, siamo un miscuglio di nullità". Quando si dice la forza dei classici! Il successo del romanzo di Victor Hugo è stato in qualche modo ereditato dall’"opera popolare" che ne ha tratto Riccardo Cocciante, il quale ha recentemente dichiarato a Repubblica: "Ho voluto staccarmi dalla sia pur rispettabilissima tradizione anglosassone del musical proprio per recuperare la mia identità di europeo italiano e francese. Ho aggiunto ‘popolare’ perché l’opera è quella di Puccini, Verdi o Bellini e io non voglio nemmeno lontanamente paragonarmi a questi Maestri. Non ci sono arie bensì canzoni e nel cast ci sono artisti/cantanti, prima ancora che attori". Un cast cui vanno aggiunti ballerini/acrobati: si raggiungono così i 25 interpreti, rimasti i medesimi nella troupe che da qualche mese, e a vent’anni dall’esordio, sta ri/conquistando l’Europa. Un esordio che fu clamoroso: il visionario produttore David Zard fece costruire il Gran Teatro di Roma, vista la complessità di una scenografia che non poteva restringersi nelle pur capaci altre sale della Città Eterna.

Qualcosa di grandioso si sta ripetendo anche a Lugano. Sette Tir sono approdati al Lac con scenografie, materiale e suppellettili necessari per mettere in scena quella che possiamo definire un’opera sì popolare – eccome: quasi ottomila repliche per 13 milioni di spettatori di una decina di lingue diverse! – ma altresì colossale. Un fondale da 20 metri x cinque, diviso in tessere che talvolta si aprono come finestrelle (facendo apparire a un’altezza rilevante chi, qualche secondo prima, sgambettava sul palco) e dotato di appigli e protuberanze degne d’una palestra d’arrampicata. E poi gigantesche campane in cui a fare d’agilissimo battacchio sono i ballerini, anch’essi freschi reduci da salti mortali, capriole e flic flac eseguiti sfruttando sino all’ultimo millimetro quello che i cronisti della ginnastica definiscono ‘il praticabile’ e che nel nostro caso era il grande palcoscenico del Lac. Ballerini/acrobati ma pure cantanti: capaci nel contempo delle loro acrobazie, con sforzi non certo indifferenti, di unirsi ai cori che offrono canzoni e non arie, dove ritroviamo tuttavia e ‘pour cause’ la cifra stilistica del Cocciante compositore: note lunghe che improvvisamente salgono di due o tre ottave. Se avete presente "Margherita adesso è miaAAA!" sapete a cosa mi riferisco. Nel frattempo, e per confermarci nell’idea che siamo di fronte a un kolossal, ecco gigantesche torri dominate da altorilievi terrificanti e del tutto simili a quelli che adornano le guglie della cattedrale parigina.

Sulle musiche di Cocciante, ha scritto i testi originali in francese Luc Plamondon (che introduce il termine "sans papiers", assolutamente sconosciuto ai tempi di Hugo), compositore canadese popolarissimo nella sua Patria. Si è invece occupato della traduzione italiana Pasquale Panella, vituperato complice (da chi preferiva i testi di Mogol) dell’ultimo Lucio Battisti. Dimenticati i suoi versi criptici ("Ha un nome molto illeso"), Panella ha potuto sfogarsi con uno stillicidio di rime baciate: crocevia poesia; mistero davvero; porte morte, poesia crocevia ecc.

E gli interpreti? Tutti all’altezza, anche un quarto di secolo dopo! Giò Di Tonno è un Quasimodo che ricorda l’iconografia classica di Gustave Doré, con la sua spalla destra offesa dal destino. Quando viene sistemato sulla ruota della tortura noi soffriamo con lui, che viceversa canta alla Cocciante: voce tonante con la ‘erre’ quasi blesa. Lola Ponce è un’Esmeralda inafferrabile, "una libellula velata dalla rapidità del volo", come la definì lo stesso Hugo. Vittorio Matteucci è l’arcidiacono Frollo: pur tormentato per l’inusitata passione per la bella zingara, è feroce crudele e violento quando occorre, senza però mai andare sopra le righe. Tutti gratificati dal caloroso applauso del pubblico (Lac strapieno!) sfociato in una standing ovation e concluso alla grande col coro della platea, magari stonato ma sentitissimo, "Questo è il tempo delle cattedraaaali!".

Con un po’ di fortuna potreste accaparrarvi uno dei pochi biglietti ancora in vendita per le repliche, previste sino a domenica 12 giugno: val davvero la pena di tentare.