laR+ L’intervista

A Lugano che giorno è? È il giorno di Garbo allo Studio Foce

Sabato 2 aprile alle 21.30 a Lugano un pezzo consistente della New wave italiana, nel 40ennale (Covid più Covid meno) di ‘A Berlino… va bene’

‘Si può vivere, un giorno in più’
1 aprile 2022
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Ci sono canzoni che la forza di un ritornello ne cambia il titolo. ‘A Berlino… va bene’ per molti è ‘A Berlino che giorno è’, singolo spiazzante per sonorità e liriche, nel 1981. Zeppo di rimandi mitteleuropei, portatore della ‘nuova onda’ ma anche generatore di essa a livello italiano, ‘A Berlino… va bene’ – l’album intero – è oggi tra i 100 dischi italiani imprescindibili per Rolling Stone Italia. ‘A Berlino… va bene’ è l’opera prima di Garbo, uscita poco più di quarant’anni fa nello stesso giorno in cui uscì ‘La voce del padrone’ di Franco Battiato, e andando avanti con la lettura si scoprirà che tutto ha un senso. Nel quarantennale del disco, ritardato dal Covid, Lugano si veste da Milano e da Berlino per accogliere Garbo, che arriva allo Studio Foce in duo con l’eclettico performer/producer Eugene. Accadrà sabato 2 aprile alle 21.30 per la rassegna ‘Raclette’ (www.biglietteria.ch).

In nome della celebrazione: partiamo dal nome?

‘Garbo’ nasce da un incidente visivo. All’epoca c’era l’abitudine di darsi un nome d’arte, cosa che si è persa un po’, e mi era saltato all’occhio questo cognome veneto. Mi approcciavo a far diventare pubblica la mia musica e Garbo mi pareva un cognome ‘sonoro’.

Sbaglio o c’entra un ufficio dell’anagrafe?

No, in verità ero militare ed ero riuscito a intrufolarmi negli archivi, pur di non manovrare armi. Ero in borghese, abbastanza libero di fare le mie cose. In quel settore non c’erano ancora i computer e si trascriveva a mano tutto quanto; mi passarono sotto gli occhi i nomi dei ricoverati di guerra, gente del ’44-45, e arrivato alla ‘G’ vidi parecchi Garbo. Nessun riferimento all’attrice o ad altro.

Garbo pseudonimo vincente tanto quanto il look. Uno pensa che dietro ci fossero hairstylist, guru della moda e geni della comunicazione e invece…

E invece già camminavo per le strade così, vestivo un’immagine adeguata al lavoro che andavo ad affrontare. Mi piaceva curarla affinché riflettesse il mio modo di pensare o di concepire il suono e i testi. Era un pacchetto unico esistenziale mio, la voglia di un ventenne di esplorare e di farsi riconoscere. Tenevo alla mia originalità, alla mia distinzione. Se devo comunicare qualcosa agli altri, mi dicevo, dovevo essere riconoscibile.

Il concerto di Lugano celebra un anno dopo, per questioni di Covid, ‘A Berlino… va bene’, album per il quale si rimanda sempre alla Trilogia di Berlino di Bowie ma che tu sei solito ricondurre anche a ‘Berlin’ di Lou Reed…

Sì, e aggiungo che la mia Berlino dell’epoca nasce dai racconti di mio padre che fece la guerra. È inizialmente attraverso quelle storie che nacque in me l’interesse per una città storicamente a cavallo tra due mondi, centro della storia moderna. Anche andando in loco e vivendola, poi, mi accorsi che quel tipo di tensione diventava un motore creativo, prodotto di questo contrasto. Berlino era benzina per la creatività, così si spiega il fatto che molti artisti fossero lì. Frequentai il bar in cui Nick Cave portava le birre ai tavoli, nella città che fu anche di Bowie e Iggy Pop. La Berlino di Lou Reed fu davvero la molla scatenante, e il mio album fu anche un pretesto per raccontare il mio punto di vista sonoro e lirico, per dare un tema di base a quello che poi avrei fatto progettualmente, più in generale.

‘A Berlino… va bene’ è un album creato in prima persona fin dagli arrangiamenti, che ha l’elettronica di alcune macchine che ritroviamo usate anche oggi: per i cultori, facciamo qualche nome o sigla?

Quando da ragazzino iniziai a scrivere le prime cose, che poi sono convogliate in buona parte nel primo album, tutto cominciò con una chitarra acustica da pochi soldi. D’estate, anziché spenderli a Riccione o a Rimini, usavo i soldi che arrivavano un po’ dalla famiglia e un po’ da qualche lavoretto per comperarmi un registratore quattro tracce a cassetta, e facendo ‘ping pong’ tra una traccia e l’altra riuscivo a fare sovraincisioni. Il primo fu un Tascam a cassetta, poi un Fostex a bobina; a quel punto la mia chitarrina economica si unì a una batteria elettronica della Roland e quando la batteria elettronica della Roland non fu abbastanza mi procurai una tastierina Casio, sempre molto economica.

Quella di ‘Da Da Da’?

Quella, riconoscibile perché i Trio si esibivano tenendola in mano. Molto poi, attraverso i miei provini, fece la fortuna di essere messo sotto contratto dalla Emi, cosa che mi permise di utilizzare macchine più evolute e interessanti. Ero amico di Pietro Pellegrini, discografico e tastierista che un giorno dell’83 mi chiamò per andare fuori Milano a provare una macchina bellissima chiamata Fairlight, una delle prime workstation, diventata famosa in Peter Gabriel IV, disco realizzato totalmente con essa. Io fui il primo a utilizzare il Fairlight in Italia, lo sperimentammo quella notte. Una macchina da 150 milioni di lire, trasportabile solo se si possedeva una station wagon. Un oggetto ingombrante, pesante. Insomma, sono arrivato ad avere questa possibilità, ma tutto era nato da pochi mezzi casalinghi.

Garbo è la New wave a Sanremo, manifestazione che nel tuo caso ha le dinamiche del finire ultimi e avere grande successo, alla ‘Vita spericolata’ per intenderci, quelle del premio della critica e del sovvertimento dell’ordine precostituito: salire la scala del Festival alla fine di ‘Radioclima’ anziché scenderla all’inizio. E una radio vintage sul palco…

A Sanremo fu tutto abbastanza naturale, non ci vedevo nulla di straordinario. Anche la radio portata fisicamente all’Ariston. Sentivo l’esigenza di poter mettere in scena qualcosa che andasse oltre l’esibizione del cantante pop televisivo. Citavo prima Peter Gabriel che l’anno prima, pur rompendosi una costola, si appese a una specie di liana e si librò sulla platea del Festival cantando ‘Shock The Monkey’. Io ero un ragazzino glitteriano, e personaggi come David Bowie e Peter Gabriel avevano messo in scena il mio pensiero, e cioè portare sul palco, nei dischi, nelle case della gente qualcosa di più ampio della semplice song. Il loro, e il mio, era un modo d’interpretare l’esistenza e l’arte in totalità. Fare musica per me equivale a fare cinema, compongo per immagini, e magari immagini in movimento; una canzone fine a sé stessa non m’interessa, non sono mai stato attratto da ‘una bella canzone’, ma dal mondo retrostante e da una filosofia più estesa, che implica tutte queste cose.

Pippo Baudo ti presentò come ‘il nuovo che avanza’: c’è un nuovo che avanza oggi e, eventualmente, t’interessa?

Parto da ciò che sta accadendo, che è da una parte sbalorditivo in senso negativo, ma anche interessante. Viviamo un momento culturalmente e drammaticamente vuoto, desertico come sta diventando il pianeta; viviamo il niente che avanza, per citare ‘La storia infinita’. Vedo i ragazzi molto soli, ridotti a numeri, ma c’è chi forse riesce a descrivere questo vuoto. È come se qualcuno, visto che l’arte serve a comunicare uno stato, riesca a dipingere questo vuoto. Il racconto del vuoto diventa storia, diventa epoca, che nella negatività apparente ha un suo aspetto creativo da non sottovalutare. In alcune delle cose che ho visto del Sanremo di quest’anno, come il brano che ha vinto, c’è tanto già sentito, ci sono evidenti riferimenti alla storia della canzone, ma fotografa bene questo periodo, questa transizione.

‘A Berlino… va bene’ usciva il 21 settembre del 1991, nello stesso giorno di ‘La voce del padrone’ di Franco Battiato, al quale ti lega l’apertura del suo tour: ci ricordi quei giorni?

Al di là del suo peso artistico, della grandezza riconosciuta più o meno dalla totalità, Battiato mi battezzò dal punto di vista dei concerti. I primi palcoscenici importanti, ancor prima di pubblicare il mio primo disco, li feci con lui attraverso il suo tour. Ma porto con me anche l’essere stato al suo fianco, in quelle occasioni, 24 ore su 24 al netto delle ore di sonno; pranzavo e cenavo con lui, viaggiavo con lui per tre mesi di fila. Mi ha insegnato molte cose, da quei 60-70 concerti in poi ho dato un’accelerata. Andammo in tutta Italia, da nord a sud e viceversa, con un day off ogni dieci giorni, si tornava a casa solo per cambiare il contenuto della valigia. E devo dire che ho la sensazione che da quel tour e da quei due album, il mio e il suo, la musica italiana sia cambiata, si affacciava una maniera nuova di concepire il suono e la parola, lui in un modo e io in un altro. Non mi sto paragonando a lui, parlo di un cambiamento in atto del quale noi fummo portavoce.

Una constatazione: il tuo equilibrio nel gestire un successo clamoroso e improvviso è lo stesso nel momento in cui quel successo si sposta sotto riflettori meno potenti. Nonostante ciò, Garbo non si è spostato di un centimetro dal punto fermo che è. C’entra la coerenza?

È stato fin dall’inizio il mio obiettivo, e non ho fatto molta fatica in entrambi i casi. Quando alla Emi mi fu messo in mano il mio primo album, fui conscio che in qualche modo avrei detto qualcosa alla gente. A casa me lo ascoltai, con la copertina in mano, e dissi tra me e me: "Amico mio, non sarai mai nazionalpopolare, preparati a questo". Sapevo che sarei potuto essere di nicchia, per qualcuno ma non per tutti, perché non sono mai stato capace di fare cose per tutti, e se anche mi venisse di farlo m’annoierei io per primo. Dunque, affrontando la popolarità, la cosa mi faceva piacere senza darmi la spinta per perdere il controllo. Mi dicevo "che strano…", salendo sul palco del Festivalbar, o a Sanremo vedendo Freddie Mercury, i Frankie Goes To Hollywood, che ho conosciuto; ho pranzato con i Talk Talk e Brian May, che parlava un po’ italiano, mi chiese scherzando: "Ma tu cosa ci fai qui?". Io dissi che non ci volevo venire, ma che la mia casa discografica mi ci aveva mandato per fare promozione. Io gli chiesi perché i Queen fossero lì e lui, in modo molto ridanciano, rispose: "Oh, for the money!".

A differenza di altri, non hai mai sparato a zero su Sanremo…

Mi ha dato popolarità, perché mai dovrei avercela col Festival? Nel 1984 mi chiamò Gianni Ravera, perché io a Sanremo non ci volevo andare. Nel 1984 c’erano i telefoni fissi, mia madre alzò la cornetta e mi disse: "C’è un certo Ravera Gianni, vuole parlare con te". Io capii. Ravera mi chiese di andare, mi convinse dicendo che voleva vedere rappresentata tutta la musica italiana, che a stare insieme ai Ricchi e Poveri e Toto Cutugno non c’era niente di male e che dovevo soltanto essere me stesso. La Emi era contenta, avremmo venduto dei dischi e infatti, entro il martedì successivo, di ‘Radioclima’ si erano già vendute 20mila copie. Non posso parlare male di Sanremo. Perché ci sono storie bellissime da raccontare.

Siamo tutt’orecchi...

I Queen seduti in sala stampa, io di fianco a loro, a parlare coi giornalisti; a un certo punto entra Claudio Villa e inizia a cantare; ho visto i Queen guardarsi tra loro e chiedersi dove fossero finiti. Fu lì che mi chiesero cosa ci facessi lì anche io, perché mi videro vestito in modo completamente diverso. Eppure Gianni Ravera aveva capito la bellezza della divaricazione, il fascino dell’affiancare i giovani a gente come Pupo e Christian. Ravera aveva molto più coraggio dell’Amadeus di oggi. E poi gli ospiti internazionali, i Culture Club, i Duran Duran con Simon Le Bon che cantò ‘Wild Boys’ con un piede ingessato, perché qualcuno in hotel gli aveva lanciato un estintore sulla gamba. ‘Wild Boys’ col piede ingessato, ma ti rendi conto? (ride, ndr). C’era tanta purezza e goliardia, e brani cosiddetti ‘per le ragazzine’ come quelli di Spandau Ballet e Duran Duran avevano scritture particolari, molto ben fatte. Oggi gli artisti vanno a Sanremo con il team di avvocati, noi portavamo sul palco la nostra vita. Ho 64 anni, non vivo di nostalgia, ma mi faccio tante domande.