‘Tutto l’oro che c’è’ è dedicato al fiume e a chi ci vive, dai cercatori d’oro a uccelli, insetti e piante
‘Tutto l’oro che c’è’ di Andrea Caccia è stata una piacevole sorpresa alle Giornate di Soletta del 2020: il film è un affascinante ritratto, quasi completamente privo di dialoghi, del fiume Ticino, dalle montagne della Leventina al parco fluviale tra Lombardia e Piemonte che fa da scenario principale e dove incontriamo i protagonisti che la camera segue nel loro vivere quotidiano: un carabiniere, un cercatore d’oro, un naturista, un cacciatore, un bambino e poi alberi, insetti, uccelli, animali.
Dicevamo del festival di Soletta. «Poi il film sarebbe dovuto uscire nelle sale italiane, in quelle "d’essai", ma è arrivata la pandemia che ha risucchiato tutto» ci ha spiegato il regista. Prodotto da Dugong Films di Roma e Rough Cat di Lugano, il film ha adesso un distributore in Svizzera – la Noha film di Antonio Prata – e dopo il debutto al celebre Riffraff di Zurigo, arriva anche in Ticino: il regista sarà presente domani, martedì 22 marzo, alle 20.30 al LuxArtHouse di Massagno; mercoledì al Cinema Blenio di Acquarossa, sabato 26 al Leventina di Airolo e domenica 27 alle 18.15 all’Otello di Ascona.
Senza dialoghi, il film è quasi una meditazione…
Sì, era nelle mie intenzioni costruire un percorso che fosse di immersione e perché no anche di meditazione. Il film ha quel ritmo perché ho voluto provare a far riflettere sull’importanza del tempo e del nostro sguardo. E questo prima che accadesse quel che è accaduto e che ci ritrovassimo tutti noi a rallentare, quasi a fermare il nostro sguardo.
Quando si tratta di raccontare spazi naturali, si tende ad andare verso mete esotiche, in luoghi spettacolari, ma credo risulti chiaramente che nella mia visione quella spettacolarità non è il punto d’arrivo.
Il titolo, ‘Tutto l’oro che c’è’, si riferisce a questo, al valore delle cose vicine?
Sì. Gioca sulla figura del cercatore d’oro, anche se il film in realtà è nato da un altro personaggio, il ragazzino che poi è mio figlio. È lui la persona con la quale sono tornato sul fiume in un ruolo diverso: sono originario del versante piemontese del fiume Ticino, poi ho vissuto per tanto tempo a Milano e sono tornato a vivere, sul versante lombardo del fiume, praticamente nello stesso tratto. Andando a fare questi giri sul fiume con mio figlio mi sono reso conto che dall’altra parte del fiume, trent’anni prima c’ero io con mio padre: guardare il fiume nello stesso punto, ma vederlo scorrere in senso opposto mi ha fatto ragionare su come il nostro sguardo scorre nel corso del tempo.
E poi il cercatore d’oro.
È una figura un po’ mitologica, perché si parla molto del fatto che il Ticino è uno dei fiumi più ricchi d’oro d’Italia. Ho incontrato questo cercatore d’oro, Rinaldo Molaschi, e con lui ho iniziato ad andare un po’ in giro, ad ascoltare le sue storie. Alla fine quella distanza tra l’età giovanile del ragazzo e l’età adulta del cercatore è diventata lo spazio che ho deciso di riempire con gli altri personaggi. Attraversare questa "scala di età" per cercare cosa c’è di davvero prezioso nelle nostre vite…
Come si sono svolte le riprese?
Appena ho convinto i produttori a realizzare il film, ho insistito sulla necessità di girare almeno per sei mesi ininterrottamente. E i produttori hanno accettato immediatamente, perché hanno capito che lì stava una parte molto importante del lavoro.
Io e un assistente abbiamo girato su e giù per il fiume per sei mesi. Poi si sono intersecate sette settimane di riprese con i personaggi, con le persone che popolano il film, e una troupe di dieci persone perché chiaramente per seguire Rinaldo sulla barca o il carabiniere Francesco nelle sue ricerche era necessario un lavoro un po’ più strutturato. Anche se alla fine il presupposto è sempre stato quello di una costante ricerca di qualcosa: da parte dei personaggi e anche da parte nostra nel realizzarlo.
Come sono stati quei sei mesi sul fiume?
Una delle caratteristiche del film è di essere costruito a partire dalle cose che abbiamo trovato nel percorso: il fiore che vediamo non è stato messo lì da noi, noi lo siamo andati a cercare e se non lo avessimo trovato, avremmo cercato qualcosa d’altro. La presenza degli animali è stata fortemente cercata o voluta: il Martin pescatore che si vede per pochi minuti ha richiesto giorni e giorni di lavoro perché non è che il Martin pescatore arriva quando vuoi, ma arriva quando hai scoperto un posto dove attenderlo, quando hai capito come ti devi posizionare con la macchina da presa…
Questo processo è stato fondamentale per inglobare all’interno del film questo discorso sullo sguardo: per la maggior parte il film è costituito da questi cinque personaggi, da questi cinque percorsi che si sfiorano, che si incontrano solo all’interno del tessuto cinematografico. È il linguaggio del film a far sì che ci possa essere un’eco, una risonanza tra questi personaggi.
Pensa che alcune persone che conoscono bene il territorio mi hanno detto di non aver mai visto così tanti animali sul fiume. Certo: non è che gli animali sono lì ad aspettarti!
C’è stato tutto un lavoro di ripresa che non è finito nel film ma che è stato essenziale per stabilire cosa volessi mettere a fuoco. Perché se c’è un nucleo forte nel film è quello sul guardare: chi guarda qualcosa, il rapporto che si viene a creare quando ci sono degli animali, quando uno sguardo va in una direzione e incontra qualcosa che è lì nel film ma che nella realtà non sempre riesce a incontrare.
Il mio è un film che parte dall’osservazione della realtà e che poi vuole svelare cosa c’è dietro la realtà, o almeno provare a suggerire che la realtà è molto più profonda di quello che vediamo.
Nei titoli di coda scopriamo tutti gli ‘interpreti’, incluse specie animali e vegetali…
Perché tutti i soggetti che si sono prestati a essere filmati in qualche modo richiedono qualcosa. Un albero non è che arrivi lì e lo filmi: richiede del tempo. Con i titoli di coda volevo dire che tutte le cose viste hanno la stessa importanza, non c’è nulla che ha importanza minore. Poi è ovvio i cinque personaggi figurano prima perché si sono prestati a farsi seguire per una settimana o anche più. Però dopo di loro tutto ciò che si è trovato in questo percorso di ricerca ha la stessa importanza.
Ad accompagnare le immagini, un sonoro altrettanto avvolgente e sorprendente.
Il lavoro sul suono è stato lunghissimo e accuratissimo. È un suono in buona parte ricostruito: mentre giravamo c’è sempre stata la presa diretta, ma poi quella ripresa ha dovuto essere pulita perché ovviamente quando c’è una troupe che si muove nel bosco, non lo fa in perfetto silenzio.
Il fonico Luca Bertolin ha fatto un lavoro molto accurato, ma il lavoro davvero profondo è stato fatto dal sound designer Massimo Mariani a Milano. Se a montare il film ci abbiamo messo quasi un anno, a montare il suono ci sono voluti sei mesi, tornando a registrare in alcuni luoghi una volta che il film per quanto riguarda le immagini era chiuso. È stato necessario per riuscire a ottenere questa profondità ed è un lavoro che solo in sala si può davvero cogliere. Per l’aspetto visivo è scontato, che la sala faccia la differenza, ma è il suono che fa sì che lo spettatore si senta davvero immerso.