La commedia di Shakespeare, nella versione di Andrea Chiodi, apre la stagione teatrale del Lac di Lugano
Incontro Andrea Chiodi in una pausa delle prove del suo ‘Sogno di una notte di mezza estate’, spettacolo che giovedì e venerdì aprirà la stagione del Lac (www.luganolac.ch) con in scena Giuseppe Aceto, Alfonso De Vreese, Giulia Heathfield Di Renzi, Caterina Filograno, Claudia Grassi, Igor Horvat, Jonathan Lazzini, Sebastian Luque Herrera, Alberto Marcello, Marco Mavaracchio, Alberto Pirazzini, Emilia Tiburzi, Anahì Traversi e Beatrice Verzotti; scene di Guido Buganza, costumi di Ilaria Ariemme e musiche di Zeno Gabaglio.
Dopo la tragedia ‘La bisbetica domata’ di qualche anno fa, la commedia più conosciuta di Shakespeare, con il suo racconto tra realtà e fantasia, tra Atene e una foresta incantata. Spettacolo che Chiodi vuole dedicare a Piera Degli Esposti, attrice e regista da poco mancata «alla quale ero legatissimo: questa è la prima produzione che faccio senza di lei, anche se aveva fatto in tempo a sapere che ci stavo lavorando. E gliela voglio dedicare perché lei mi ha insegnato che il teatro, l’arte, il mestiere che facciamo possono essere occasione di consolazione».
Consolazione?
Sì. Quando Carmelo (Rifici, direttore artistico del Lac, ndr) mi ha proposto di fare uno spettacolo per la riapertura della stagione si è pensato a una commedia di Shakespeare. E l’idea del ‘Sogno’ mi è subito piaciuta perché credo sia uno spettacolo molto bello in un momento come questo perché ha un’idea di rigenerazione, di ciclo della natura che riparte.
Nel testo c’è un grande monologo sullo scontro delle forze della natura che provoca una distruzione sempre maggiore, ma se l’uomo fosse un po’ più attento a quel che accade queste cose forse non accadrebbero più.
Da cosa è partito per questo allestimento?
Quando lavoro a uno spettacolo cerco sempre degli spunti nella vita, nella mia vita, nelle cose che osservo, che sento. Per il ‘Sogno’ ho guardato come i miei tre figli giocano: per loro il gioco è qualcosa di molto serio. E poi come guardano gli adulti: è un luogo comune, dire che “i bambini ci guardano”, ma è vero.
Shakespeare ha scritto il ‘Sogno’ alla fine del Cinquecento, aveva anche lui dei bambini abbastanza piccoli, stava scrivendo i sonetti ma non aveva ancora scritto le grandi tragedie… secondo me si trovava in un momento in cui ancora credeva che la bellezza, la poesia potessero essere un motore di ripartenza, un’evoluzione. Il mio ‘Sogno’ doveva quindi tenere conto di questa natura: il carattere fiabesco, ma una fiaba intesa come possibilità di crescita. Le grandi fiabe ti fanno attraversare la paura e te la fanno vincere.
È un percorso di rinascita.
Il testo è quello di Shakespeare o ci si discosta?
Il testo è quello di Shakespeare, ovviamente non integrale perché sarebbe troppo lungo: ho fatto dei tagli, ho trasformato alcune scene in azioni sceniche ma è molto fedele. Non ci sono parole che non sono di Shakespeare.
A me preme molto che il pubblico – anche quello giovane che a me sta molto a cuore – possa seguire la trama, godere delle vicende. Shakespeare l’ha scritta così, e lui sapeva quello che faceva. La traduzione l'abbiamo rifatta, è di Angela Dematté, e abbiamo conservato la rima che molti tolgono ma che dà un effetto immaginifico molto forte, legato all’infanzia e alla gioventù. La rima è molto presente nei dialoghi degli innamorati che sono dei ragazzotti, di quelli che oggi potrebbero fare il rap.
L’unica cosa che mi sono concesso riguarda la figura della fata che anche nel testo è importante, ma che io ho voluto far emergere in modo particolare e che ho trasformato in una bambina che condurrà i protagonisti attraverso il sogno: tutti costruiscono quello che fanno perché sanno che la bambina li guarda. È quello che dicevo prima, degli adulti che devono tenere conto delle nuove generazioni.
In questo sguardo reciproco tra generazioni c’è l’esperienza della pandemia?
Un po’ sicuramente. Quello che in questo spettacolo mi porto di quello che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo, è – parlo per me, della mia esperienza – l’aver vissuto tanto tempo in casa con i bambini. Questa necessità dei piccoli di essere guidati anche dentro un momento di paura come la pandemia: se riusciamo a prendere questa paura e trasformarla in qualcosa di generatrice allora avremo vinto la sfida; se invece questa paura ci blocca…
Il ‘Sogno’ ha tanti personaggi. E in scena abbiamo un nutrito numero di attori, cosa non comune.
Sono quattordici e, no, non capita spesso. Secondo me è bellissimo poter ripartire con uno spettacolo con tanti attori giovanissimi. Abbiamo Igor Horvat e Anahì Traversi, attori con già una solida esperienza e che fanno Teseo/Oberon e Ippolita/Titania. Con Igor ho già lavorato nella ‘Bisbetica’ e l’ho voluto perché mi trovo molto bene con lui; Anahì è un’attrice che amo molto ma con la quale non avevo mai avuto occasione di lavorare. Avere tutti questi attori giovani si sposa molto con la mia idea di una certa vivacità dello spettacolo: mi sembrava importante avere un cast grande che oltretutto aiuta molto il pubblico a seguire la trama. È un privilegio del quale sono molto grato al Lac.
L’ambientazione? Con i suoi elementi fantastici il testo lascia una certa libertà.
Dal momento che il tutto è un grande gioco, ho immaginato un parco giochi. Un giardinetto con uno scivolo e una giostrina: perché è il luogo dove i giochi prendono vita. Di giorno, ma il parco ha anche una notte: chi va nel parco di notte? Gli amanti? I drogati? Non si sa mai. A me hanno sempre inquietato i parchi di notte. Un luogo di giochi ma anche di paura.
Il parco è circondato da una sorta di bosco inventato fatto da migliaia di fili neri: una selva, un muro, un incastro, un passaggio, un sipario.
I costumi?
Ho voluto una linea semplice e contemporanea per il mondo della realtà. Sul nero perché è una realtà rigidamente programmata, anche molto violenta. Il mondo del sogno è invece favolistico. Ispirandomi di nuovo a come giocano i miei figli.