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Le storie che curano di Finzi Pasca e Pablo Gershanik

Dalla città ideale di La Plata alla dittatura argentina, abbiamo assistito alle prove del nuovo spettacolo della Compagnia Finzi Pasca

Le prove dello spettacolo '52' con Pablo Gershanik (Ti-Press / Alessandro Crinari)
10 maggio 2021
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“Il teatro è una forma del raccontare storie che a volte curano”. Siamo nella piccola sala del teatro La Darsena a Magadino, luogo storico della Compagna Finzi Pasca. Nell’ampio spazio in entrata si discute: su un tavolo troviamo i progetti per un imponente allestimento di ‘Les contes d’Hoffmann’ di Offenbach per l’opera di Amburgo che dovrebbe debuttare nei prossimi mesi. Ma nella sala troviamo solo un microfono, un’alta torta a piani e, sul pavimento, l’ordinato schema urbanistico di una città. Sul palco, Pablo Gershanik sta provando lo ‘52’, lo spettacolo che debutterà al Teatro dell'architettura di Mendrisio il 18 maggio: tra una citazione di Le Corbusier, feste, giri in auto funestate da urgenze fisiologiche, sentiamo la frase sulle storie che a volte curano. È quello il cuore di ‘52’, progetto che allo spettacolo aggiunge un laboratorio una tavola rotonda che si terrà venerdì 21 alle 18 sul tema dell’esperienza teatrale come guarigione, come superamento di un trauma.

Cinquantadue

Lo spettacolo si snoda come una tombola, con i numeri estratti che danno il ritmo. Tra cui il 52 del titolo che indica una strada che non c’è nella città di La Plata in Argentina: non c’è perché, nello schema ideale dell’urbanista Pedro Benoit, le vie numerate passano da Avenida 51 ad Avenida 53, un isolato doppio perché lì ci sono i grandi edifici pubblici. Una strada che non c’è per uno spettacolo incentrato sull’assenza.
Per comprendere la storia di ‘52’, occorre partire da un altro luogo, la Escuela de Mecánica de la Armada a Buenos Aires: durante la dittatura, ci spiega Pablo Gershanik, era il più grande centro di tortura dei dissidenti. Un campo di concentramento oggi centro culturale della memoria. «Nel 2016 mi propongono di realizzare lì un progetto, ma nel settore dell’arte visiva, non del teatro. Per me è stato un modo interessante per arrivare a una storia personale che ha colpito la mia famiglia negli anni Settanta: l’assassinio di mio padre». Pablo Gershanik ha costruito una maquette, un modellino «di quella scena fondatrice della mia storia personale e di tutto quello che accadeva nello stesso momento, secondo l’idea della risonanza». Quello spazio ha creato un incontro con gente che aveva vissuto l’esperienza della tortura, della scomparsa di propri cari. «E mi sono accorto che si stava aggiungendo un altro livello in cui la figura del narratore diventata centrale per il dialogo con lo spettatore, ma un dialogo che passava attraverso la maquette. Lì ho pensato che, come una maquette ha aiutato me a lavorare con la storia personale e la storia sociale, forse poteva aiutare anche altri».
Il progetto prosegue quindi in Francia. «All’inizio mi limitavo a presentare la mia maquette ‘80 balas sobre el ala’, ottanta pallottole contro l’ala perché mio padre, medico pediatra che giocava a rugby come ala, è stato ucciso con 80 colpi di fucile». Nella Francia colpita dagli attentati di Charlie Hebdo, del Bataclan, di Nizza, la domanda sul ruolo dell’arte nella recupero del vissuto sociale si è rinnovata. «Ho capito che sarebbe stato più interessante non solo portare il mio ‘80 pallottole’, ma prenderlo per dire “questa è la mia storia, queste sono le mie domande: quali sono le vostre?”, dando vita a un laboratorio di ‘maquette intimes’ dove chi ha subito esperienze traumatiche può lavorare in gruppo per costruire la maquette della loro storia».
Un lavoro emozionante: «Il lavorare in un gruppo, essere in uno spazio non solitario ma solidale, dare tridimensionalità non solo alla tua storia, ma a tutte quelle che accadono in quel momento permettono una visione panoramica. Che è l’idea alla base del teatro, una storia vista da più sguardi». E «molto in accordo con la ricerca che la Finzi Pasca e la Compagnia hanno sempre portato avanti, del teatro come un sistema per raccontare storie che a volte hanno la capacità di curare».
Qual è il legame con l’architettura? «Al centro c’è lo spazio della cura: lo spazio narrativo, lo spazio del teatro e anche lo spazio architettonico».

Un abito su misura

Prima un’installazione, poi un laboratorio e infine uno spettacolo vero e proprio, scritto e diretto da Daniele Finzi Pasca. Che cosa significa quest’ultima fase del progetto? «Per me è un passo molto importante» risponde Pablo Gershanik. «Per essere capaci di raccontare una storia personale, una storia forte, non devi essere troppo dentro ma hai bisogno di mettere un velo. Avere la mia storia nella maquette è stato un primo velo; pensare la maquette per altri il secondo velo. Adesso ho la possibilità di raccontare la mia storia attraverso lo sguardo, le parole, la regia di Daniele. Per me condividere questa ricerca con la compagnia è un regalo molto grande».
Cinquantadue è, come detto, una strada che non c’è: l’assenza di una via, l’assenza di un padre, l’esilio in Messico. «Ma – interviene Daniele Finzi Pasca – nella smorfia napoletana è il numero che ti consigliano di giocare se sogni tua mamma. Pablo aveva 11 mesi: vuol dire che la sua vita è basata su sua madre, è costruita su questo 52». Di nuovo Pablo Gershanik: «È stato mio figlio a insegnarmi chi era mio padre, perché nella mia idea di figlio undici mesi non erano niente, per me era non aver avuto un padre, ma quando io sono diventato padre ho capito che undici mesi sono molti».
Che cosa ha significato, per Daniele Finzi Pasca, scrivere questo testo? «L’ho scritto come si fa un vestito su misura, cucito intorno a lui, al Pablo Gershanik che conosco. All’inizio quando Pablo mi ha chiamato, l’idea era dargli una mano, suggerirgli delle piste. Poi siamo andati avanti e ho deciso di parlarne con la compagnia e ci siamo detti che in questo periodo era la cosa giusta da fare». Da una parte, «c’è questo aspetto che è un po’ la chiave nostra: il dramma al quale,nel mondo clownesco, si arriva soltanto per colpi sorprendenti».
E poi il tema della cura: «È§ fondamentale, è quello che ci ha collegati con sciamani in tutto il mondo, e che ha dato spettacoli dedicati proprio a quello: ‘Così si tirava il destino’, ‘Icaro’, ‘Per te.’, il progetto con Terre des hommes durante la guerra tra Etiopia ed Eritrea per capire come, in questi villaggi pieni di orfani, si potesse esprimere il dolore vissuto». Questo spettacolo «è anche un modo per concretizzare questo aspetto, renderlo un po’ più conclusivo, più concreto: laboratori, conferenze, collaborazioni».

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