Al festival di Nyon ‘A Year in Exile’, del giovane regista siriano Malaz Usta e ‘Sognando un'isola’ di Andrea Pellerani
Perché non basta il silenzio, e il chiudersi in se stessi, per dire del tempo che è passato. Perché i popoli hanno costruito con la pietra i propri ricordi, Quanto è importante ricordare se oggi temiamo l’Alzheimer per paura di perdere i ricordi nostri. Ecco che i monumenti prima, la pittura e la scultura e infine la fotografia e il cinema, precedendo meno duraturi selfie, provvedono a far memoria. Ma cosa abbiamo bisogno di ricordare? Tre film a Nyon hanno affrontato in modo diverso, ma con la stessa violenza, il tema della memoria, a cominciare da uno splendido cortometraggio, ‘A Year in Exile’, del giovane regista siriano Malaz Usta. Il suo è il racconto di un anno passato in esilio a Istanbul, le immagini dei luoghi e quelle della mente, le idee che il luogo esprime e i suoi pensieri. Mese per mese, come in un diario, annota da gennaio a dicembre il suo sentirsi estraneo, straniero, migrante. Annota, con un ritmo di linguaggio coinvolgente, le sue speranze, poche, e le angosce, molte. Ci porta a pensare ai migranti che muoiono nel Mediterraneo e a quelli che camminano sulle nostre strade: qual era il mondo in cui vivevano, gli alberi che piantavano, i fiori che annusavano, le donne a cui raccontavano le pene d'amore e sotto quali cieli baciavano, in che luogo pregavano e come si divertivano da bambini. Scorrono veloci ed estranee le immagini si Istanbul e dei suoi abitanti e non sono solo estranee, sono guardiane di una prigionia, perché l'esilio è prigionia, perché ogni migrante si sente in prigione nel luogo in cui naufraga. Questo film di meno di venti minuti fa esplodere davanti a noi il nostro oggi che inutilmente in ogni momento cerchiamo di allontanare da noi perché ci disturba.
Dal Ticino è arrivato al Festival il film di Andrea Pellerani ‘Sognando un'isola’, un documentario che ci porta in Giappone, nella piccola isola di Ikeshima, nella prefettura di Nagasaki. Un’isola che ha avuto una incredibile storia che diventa simbolica per l'intera umanità: la sua popolazione è scesa da quasi diecimila abitanti ad appena un centinaio dopo la chiusura di una miniera di carbone che rappresentava il richiamo di molti in cerca di lavoro. Come una di quelle città che nei film si vedono abbandonate dopo la fine della ricerca dell'oro, o come i templi abbandonati nel lontano oriente, o come tante città di montagna che lentamente si spopolano, o come Detroit dopo il fallimento dell’industria dell’auto. Sono città che frettolosamente diventano fantasma, dove senza fretta, ma inesorabilmente, la natura riprende il sopravvento. Andrea Pellerani con delicata malinconia, in una pace irreale, affronta un mondo umano e civile in decadimento. Un mondo di vecchi e vecchissimi, carichi solo di ricordi, e due bambini, uno della primaria e uno della secondaria seguiti da undici insegnanti, perché nessuno vuole ammettere che un intero sistema sociale ha fallito. La chiusura delle miniere ha portato allo sfollamento improvviso, le case sono state abbandonate, palazzi interi, strutture fino alla scuola tutto svuotato come nella peggior rapina, e chi è restato è stato perché non sapeva dove andare. E a riempirsi è solo l’ospizio. Come se tutti aspettassero che gli abitanti facessero la fine della miniera per chiudere i conti.
Su un altro tema di memoria malamente ci conduce ‘La luna representa mi corazón’ di Juan Martín Hsu, una coproduzione tra Argentina e Taiwan per un film presuntuoso e privo di qualsiasi emozione su un uomo, il regista in prima persona, che dall’Argentina dove vive va a Taipei, in Taiwan, a trovare la propria madre che si è rifatta una vita, dopo la morte del marito, con un altro uomo. Qui incontra anche una ragazza con cui aveva un amore anni prima e che ora si sta per sposare un altro. Nel frattempo visita la tomba del padre e conversa con lui cercando di risolvere un suo giovanile dramma. Il problema è che non esiste un film, solo un casuale montaggio di immagini, spesso inutili, di sicuro però necessarie ad allungare oltre misura una solitaria masturbazione del regista.