Dalle battute su commissioni al successo internazionale: la carriera di Allan Stewart Konigsberg tra grandi film e qualche insulsaggine
Era piccolo, lentigginoso, coi capelli rossicci, nato a Brooklyn in una famiglia ebraica votata all’ecumenismo: “I miei mi iscrissero a un campeggio estivo con ragazzi di ogni religione. Così fui picchiato da ragazzi di ogni religione”. Allan Stewart Konigsberg si accorge ancora bambino che intelligenza e ironia sono le sue uniche armi per difendersi, per trovarsi uno spazio nel mondo. A 15 anni ne fa pure un lavoro: riceve 25 dollari la settimana per scrivere battute destinate a giornali, riviste o comici in manco di spiritosaggini. Poi vince l’innata timidezza, decide di esibirsi davanti al pubblico, diventa Woody Allen e uno ‘stand up comedian’ che propone battute come questa: “Sono stato espulso dalla Facoltà di Filosofia. M’hanno beccato che sbirciavo nell’anima del mio vicino di banco svolgendo il tema”. Storielle che racconta aggrappandosi al microfono come per averne sostegno e incoraggiamento. Mentre i suoi colleghi cabarettisti puntano soprattutto su sesso e volgarità (Lenny Bruce è forse l’unica eccezione), fa presto a farsi notare, assecondando altresì la leggenda dell’ebreo povero e indifeso: “Da bambino volevo un cane, ma i miei erano poveri. Sicché mi regalarono una formica. Quando però venni rapito, mio padre si mise subito in azione: il giorno dopo la mia cameretta era già subaffittata”. In realtà Flatbush, il suo quartiere da 100 mila abitanti, non è un ghetto e i suoi non le passano affatto male. Anni dopo confesserà che il fantasioso racconto della sua misera infanzia fu il suo primo omaggio ai Fratelli Marx, loro sì nati in quel Lower East Side a Manhattan dove – a fine Ottocento – quasi due milioni di ebrei semianalfabeti e poverissimi si ammassarono per sfuggire ai pogrom dell’Europa orientale.
S’inserisce nella tradizione comica yiddish e nel contempo la rinnova: la società è cambiata, gli Usa hanno vinto la guerra e vivono l’American Way of Life. Non è più di nicchia il pubblico che sa apprezzare gag come questa: “Quando sono stato fulminato dalla filosofia? Leggendo Kant e la sua Critica della Ragion Pura. Ho subito sentito, d’istinto, d’aver nella testa quello che sarebbe diventato il mio primo bestseller: Critica del torto marcio”. Dai locali di infimo ordine passa dapprima a Broadway, poi nel 1964 giunge a Hollywood. Riceve 40 mila dollari (e una particina) per la sceneggiatura di “Ciao Pussycat”. Interpretato da Peter Sellers, Peter O’Toole, Romy Schneider, Capucine e Ursula Andress, il film è un successone. Per Woody però non sono tutte rose e fiori: vede il suo lavoro stravolto (“Mi cambiarono le battute, inserirono situazioni che dovevano essere comiche ma in realtà non lo erano: non sapevano distinguere il materiale buono da quello scadente”) e promette a se stesso che avrebbe continuato nel cinema solo quando gli fosse garantito il controllo assoluto su un film.
Deve aspettare sino al 1969, ma quando esce “Prendi i soldi e scappa” è il boom! Si accorgono di quell’omino non solo la critica cinematografica, bensì pure intellettuali come Umberto Eco, entusiasti sia del film sia dei suoi libri umoristici, basati su una comicità che spazia con disinvoltura dai racconti hassidici alle cronache sportive (Woody è un ultras del baseball!), da Kirkegaard a Mickey Spillane, dalla psicanalisi a Groucho Marx e Ingmar Bergman, da Antonioni a Fellini. Quando gli chiedono se si considera un grande comico risponde, col suo classico intercalare: “Beh… ecco… io… insomma… ho molto da imparare da Richard Nixon, sapete. Da due anni, col suo show Watergate, sta facendo ridere mezzo mondo”. Coglie altri successi con pellicole dal costo relativamente basso e basate quasi esclusivamente sulle sue battute, verbali o “visive”: lo spermatozoo nero che in mezzo a centinaia di commilitoni bianchi si chiede angosciato “Ma che ci faccio qui?” (Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso…). Nel 1975 ottiene un grosso budget per girare in Ungheria “Amore e guerra”, dove consolida il suo legame con Diane Keaton e dove rende ancora omaggio ai Marx Br.: il suo personaggio si chiama Boris Grouschenko…
Con una commedia – caso unico nella Notte delle Stelle – ottiene quattro Oscar grazie a “Io e Annie”, ma non va a ritirarli perché la cerimonia si svolge di lunedì, quando lui si esibisce in un club newyorkese suonando – male! – il clarinetto. Siamo nel 1978 quando Allen sorprende tutti con “Interiors”, pellicola bergmaniana che non convince nessuno. È caduto vittima della cosiddetta “sindrome di Chaplin” (il bisogno avvertito dal cineasta comico di farsi messaggero di istanze più alte), che lui riassume così: “Ero stufo di mangiare gelati, volevo mandar giù qualcosa di più solido”. Si riscatta alla grande dal flop con quello che molti considerano il suo capolavoro: “Manhattan”, una sinfonia d’amore verso la sua città con musiche di Gershwin. Regge la media di un film all’anno, spiegando che era l’unico modo per garantirsi la collaborazione di attori e tecnici di cui si fida ciecamente: la Keaton, il direttore della fotografia Gordon Willis, la montatrice Susan Morse, lo scenografo Mel Bourne, i produttori Rollins & Joffe. Un ritmo produttivo infernale, che però non gli impedisce di sfornare altri capolavori: “Zelig”, “Broadway Danny Rose” (entrambi in bianco e nero), “La rosa purpurea del Cairo” (con la nuova musa Mia Farrow), “Hannah e le sue sorelle”, “Ombre e nebbia” ancora in bianco e nero che significa un suicidio nel mercato statunitense. Ma Woody, l’omuncolo ebreo a suo tempo insignificante che oggi compie 85 anni, ha dimostrato di saper reggere mille tempeste: dall’accusa di girare sempre lo stesso film a quelle ben più gravi – regolarmente reiterate e altrettanto regolarmente respinte – di molestie sessuali. Una sua colpa certa? L’averci proposto anche alcune insulsaggini (“Vicky Cristina Barcelona”, “To Rome with Love”), girate tanto per far conoscere la Vecchia Europa alla sua mogliettina Soon-Yi.