Nuova canzone, dedicata a una terra colpita al cuore e ispirata dal pensionato che guarda i cantieri: 'Anche gli incubi, prima o poi, finiscono'. L'intervista.
Un estratto dalla canzone, tanto per cominciare, condensato di due mesi d’isolamento: “L’umarell sempre qui e mi guarda. E mi dice: ‘Cosa fai con le mani in mano?’. Gli rispondo: ‘Cosa posso fare in quarantena?’. ‘Io non lo so, sei tu che suoni il piano!’”. A seguire, proponiamo un estratto dall’enciclopedia digitale: ‘Umarell: termine popolare a Bologna che si riferisce specificamente agli uomini in età pensionabile che passano il tempo a guardare i cantieri, in particolare i lavori stradali – stereotipicamente con le mani giunte dietro la schiena e offrendo consigli indesiderati”. Popolare a Bologna, non meno a Milano, «l’umarell – la sua miniatura – è lì da sempre nel mio studio, sul leggio», oggetto sul quale Fabio Concato poggiava la primogenita in ‘Tienimi dentro te’ (“Amore sei buffa sul leggio», cantava nel 1984. E siamo già alla seconda citazione. Finiremo con l’esagerare).
«L’umarell mi ha chiesto di fare qualcosa e in due ore ho scritto musica e testo», racconta il cantautore tornando ai giorni dell’isolamento. ‘L’Umarell’ è il titolo della canzone pubblicata lo scorso martedì, un sei ottavi che ha il marchio del singer-songwriter milanese e il suono lì nel mezzo (dentro e fuori il jazz) di quasi tutta la fedelissima band: Ornella D’Urbano (piano, tastiere e sempre invidiabili arrangiamenti), Larry Tomassini (chitarre), Gabriele Palazzi (batteria). «Ho spedito una traccia del brano col mio piano elettrico a Ornella che mi ha restituito una base suonata anche dagli altri ‘musici’, sulla quale ho registrato la mia voce con l’iPhone. Immagino la fatica di Pier Carlo – Penta, irreprensibile mix e mastering, comme d’habitude – ma alla gente, che la mia voce esca dall’iPhone, e che dietro ci sia la London Philarmonic Orchestra o meno, poco interessa in tempi come questi».
Ascoltata nell’isolamento di casa, sul tapis roulant velocità 4 km orari e pendenza 6, si può passeggiare al tempo de ‘L’umarell’ immaginando di essere ovunque. O meglio, si può “andà a spass”, perché ‘L’Umarell’ è cantata in dialetto milanese, ad eccezione di uno ‘special’ in italiano che ci riconsegna il Concato di ‘051’ (quella del Telefono Azzurro), di ‘Tutto qua’, sul mettersi nei panni degli altri (anche tra le strade de L'Aquila, vedi poco sotto), il Concato di ‘Bell’Italia’, di ‘Oltre il giardino’, il cinquantenne senza lavoro che si deve reinventare, il Concato del ‘Caffettino caldo' che nel 1992 era già “tutto così illogico” e adesso forse, dopo il virus, “starà meglio questo povero pianeta. A me pare che sia scoppiato, non ce la fa più», dice il recluso all’umarell.
Come nelle pagine più belle e pacate di denuncia sociale che nella sua carriera non è mai mancata, a due terzi di questo nuovo accorato appello all’empatia Concato disegna uno spaccato degli ultimi due mesi accarezzando senza retorica i nostri nonni nelle case anziani, portati via tanto in Italia quanto in Ticino – dove alzare la voce non è di moda, ma così è andata – non solo per colpa del cosiddetto ‘male invisibile’. Ancora da ‘L’Umarell’: “Non ce l’hanno fatta tutte le persone, sono andate via in silenzio come te, senza un bacio, una carezza, una ragione, senza un ‘mi sun chi e ta vöri ben’”, omaggio alla sua terra, colpita al cuore.
«È la storia che ho sentito – continua – è la storia che abbiamo sentito in tanti, il dolore di queste persone che se ne sono andate via gratis. Una cosa tragica. Mi rendo conto che forse non si poteva fare altrimenti, però mi auguro che di questa cosa qualcuno si prenda la responsabilità. E non è vendetta, perché io vendicativo non sono. È che non è possibile andare via in quel modo. L’idea di non poter vedere i propri cari era legittima, ma la contropartita doveva essere il saperli in condizione di totale sicurezza. Quello che è successo è imperdonabile, ed è un segno che rimane». Alleggerendo il dolore alla maniera del cabarettista, Fabio scarta di lato e aggiunge: «Alla fine l’Umarell – che si chiama Enzino, è lui che ne recita la parte, in omaggio a Jannacci che per i Piccaluga è stato uno di casa – va via contento, perché mi ha fatto fare questa cosa. Una dinamica che la dice lunga sul mio stato mentale». Risata. Flashback…
Domenica 15 marzo. Uno spaesato Fabio Concato, visto al Lac in dicembre, affida a YouTube la più stralunata delle sue tante Domeniche Bestiali, chiusa da un “Ce la facciamo”. Registrata «alle otto e mezza di mattina, senza sapere cosa diavolo fare. Avevo sonno e non riuscivo a dormire, avevo fame e non riuscivo a mangiare». Pronti via, così com’era, «inclusa la pettinatura». In questa rubrica che negli ultimi giorni di lockdown svizzero dovrebbe chiamarsi in verità ‘Ognuno a casa sua ancora per poco’, Concato racconta la sua reclusione: «Ho letto il triplo di quel che di solito leggo, anche se col dispiacere che i miei occhi si affaticano molto. Ho visto il triplo delle serie tv che di solito vedo e ho anche scoperto molte cose buone della mia famiglia che avevo dimenticato. E non mi è cambiata così radicalmente la qualità di vita, perché il piccolo studio attiguo al mio appartamento è un posto che ho vissuto regolarmente per prendermi un po’ di ossigeno e di spazio».
Concato e il dopo umarell? Ora che è arrivata la Fase 2, il dolore più grande per uno che gira l’Italia in lungo e in largo, che si tratti di jazz o di pop come sempre si dovrebbe, è il non poter andare più in giro. «Questo mestiere è fatto così, di valigie riempite per andare a cantare, che ne so, a Cosenza. È fatto anche del viaggio, del fascino dell’incontro, della mangiata coi musicisti, delle risate, dei successi e anche dei fiaschi. Questo mese faccio 67 anni e mi sono accorto che le due ore in cui canto sono le sole in cui sono veramente me stesso. Sono me stesso anche ora che ti parlo, ma quelle due ore sono la mia bolla e tutto il resto non c’è più. La musica, la mia voce, sono di conforto».
Il dopo umarell, si diceva: «Non oso pensare a quando si potrà ricominciare. Comincio a credere che l’unica soluzione per molto tempo saranno i live in streaming, anche se non li amo particolarmente e credo che non li farò mai. Ma il dopo, mi chiedo, come lo organizziamo? Una fila in teatro e una no? Quanto devo costare io, quanto il biglietto per venirmi a sentire? Chi controllerà che nella fila ci siano otto persone invece di quindici? Non siamo la Germania, quella che ha molte più terapie intensive. Noi italiani siamo probabilmente le migliori teste del mondo, ma non siamo capaci di controllare e controllarci. La vedo complicatissima».
La musica cerca soluzioni alternative. I grandi promoter rispolverano la vecchia (arcaica, preistorica) idea del drive in e Concato la trova «quanto meno divertente». Anche se dal tono la parola più corretta potrebbe essere ‘comica’: «Come sarà il concerto a quaranta gradi in auto? Con i finestrini su, collegati in bluetooth e l’aria condizionata che va? Sai che bello, tutti col motore acceso e il pianeta che ringrazia». Il pianeta, appunto: «Son convinto, mi auguro, che dopo uno sberlone così sulla testa si riesca a mettere a fuoco qualcosa che prima non andava. Fallire nuovamente lo troverei insopportabile. La gente che si tocca le parti basse quando vede Greta in televisione è qualcosa che non vorrei aver mai visto nella mia vita. E che mi auguro di non vedere più».
Non resta che «navigare a vista, perché la cosa è ancora troppo fresca. Leggo degli strasichi di carattere emotivo, psicologico che questi giorni lasceranno. Mi piace ricordare, però, che anche gli incubi prima o poi finiscono». Perché ci sono anche le cose belle. A cominciare da Nina, “dolce amore” di nipotina, che presto Carlotta “Fiore di maggio” gli regalerà. Ci fermiamo qui, a un passo da Barbara D'Urso, e perché siamo ormai arrivati alla dodicesima citazione. Non potrebbe essere diversamente per chi di Fabio ama anche l’uomo. E che l’uomo arrivi prima o dopo il ‘musico’, poco importa. A noi e tanto meno all’Umarell.