Intervista a Nicola Bellucci, regista di ‘Il mangiatore di pietre’, storia di un uomo in fuga dal passato in anteprima ad Ascona e Lugano
Ci sono film che ti lasciano a bocca aperta. E ‘Il mangiatore di pietre’ di Nicola Bellucci è uno di questi, e non solo per i suggestivi paesaggi montani – per i quali val certo la pena andare al cinema, ad esempio alle due anteprime alla presenza del regista, domenica alle 18.30 all’Otello di Ascona e lunedì 8 aprile, nell’ambito di OtherMovie, al Lux di Massagno.
Per il suo primo lungometraggio di finzione, il regista – aretino di origine ma in Svizzera da molti anni – si è basato sull’omonimo romanzo di Davide Longo con protagonista Cesare (uno straordinario Luigi Lo Cascio), un ‘passeur’ che da anni ha lasciato il mestiere e vive con la sua lupa chiuso nel silenzio e nella solitudine di una baita. Finché una morte improvvisa non lo costringerà ad affrontare il suo passato…
Nicola Bellucci, abbiamo un uomo dal passato oscuro, un omicidio… gli ingredienti del noir ci sono tutti, ma il film ci porta anche altrove.
A me interessava fare una commistione di generi, perché volendo c’è anche molto western, nel film, oltre al noir: penso, per l’ambientazione, a ‘Il grande silenzio’ di Corbucci. Poi, partendo da un romanzo come ‘Il mangiatore di pietre’ di Davide Longo, era inevitabile entrare nella forma del noir.
La narrazione, in alcuni punti, ricorda un documentario.
Avendo fatto soprattutto documentari, credo che il mio sguardo sia attento a quello che scorre davanti alla camera in un altro modo… però devo dire che anche se il film, forse, sembra documentario, in realtà è tutto molto scritto, molto preparato. Se c’è l’elemento dell’osservazione, è un’osservazione calcolata: quando faccio un documentario, ci sto anche due o tre anni a girare, prendendomi tutto il tempo necessario a osservare… Certamente c’è la fascinazione dei luoghi: i paesaggi della montagna, ma anche i paesaggi umani mi stimolavano ad osservarli mentre si sviluppavano nel film. Sì, in questo credo ci sia un aspetto documentaristico: mi piace guardare quello che accade davanti a me.
A proposito di questi paesaggi: vediamo un mondo alpino in crisi per lo spopolamento ma anche per la perdita dei suoi valori…
Ho cercato di costruire un film in cui non si salva nessuno: non c’è un eroe positivo, anche se può sembrare… ma questo lo vedrà lo spettatore, è un noir, non si può dire troppo prima. Diciamo che è un po’ la mia esperienza: provengo dal Centro Italia, conosco la montagna e la sua gente, vedo lo spopolamento. Il film è costruito dentro una specie di cappa, una zona in cui ogni personaggio si muove in una forma di disperazione: un giovane che se ne vuole andare, gli anziani presi dal sospetto… non c’è comunicazione, e infatti è un film dove quasi non si parla per niente, un film fatto di sguardi.
E, quando si parla, spesso è in un dialetto aspro…
Sì, ci sono alcune parti dialettali. E per alcuni ruoli minori ho utilizzato attori non professionisti del luogo, tra cui una signora anziana che parlava occitano, che si aggiunge al dialetto piemontese della Val Varaita. E Luigi Lo Cascio, che è siciliano, ha fatto un bel lavoro per avvicinarsi a quel dialetto, a quella espressione.
Lo Cascio la cui interpretazione, senza nulla togliere agli altri attori, è uno dei punti forti del film.
Lavorare con Lo Cascio è stato veramente un piacere: è un attore che entra nel ruolo in maniera veramente profonda, che si prende il tempo per studiare e comprendere la parte. È riuscito a rendere un personaggio che sembra quasi osservare quel che sta succedendo intorno a lui, che quasi rimane un po’ fuori dall’immagine ma continuamente porta avanti un pensiero. Secondo me la bravura di Lo Cascio è stata anche questa: rendere emozioni e sentimenti senza dover dire niente, solo con la forza della sua presenza, del suo “pensiero attoriale” – cosa che non riesce a tutti gli attori. E questo è un ruolo non tipico per lui: Lo Cascio è conosciuto per altri ruoli, diciamo di “borghese intellettuale di sinistra”, e mettersi nei panni di un montanaro piemontese è stata una sfida. Che, secondo me, ha vinto.
Il film affronta il tema della migrazione e dei passatori.
Un tema forte, molto sentito, se non sbaglio, anche in Ticino, con i passatori e il contrabbando.
Tema che, mi pare, il film affronta con delicatezza, ricollegandolo a quello di un ‘mondo perduto’, quando i passatori avevano un’etica…
È la base del film: questo mondo che finisce è un po’ il substrato da cui parte la storia, e il substrato esistenziale di Cesare, il protagonista, che rappresenta un mondo che sta scomparendo, un mondo che funzionava con le sue regole – non necessariamente positive – che adesso stanno saltando. Cesare si trova di fronte un mondo nuovo in cui non si riconosce e che in qualche modo rifiuta. Tornando al tema dei migranti: ci tenevo molto a costruire una storia con una presa di posizione forte, perché credo che in questo momento certe cose vadano ribadite – cosa che il film, a suo modo, fa.
Una presa di posizione che, mi pare, arriva come naturale sviluppo della vicenda del protagonista Cesare e del suo rapporto col passato…
Rispetto al romanzo – che era interamente impostato sul destino di Cesare, sul suo non riuscire a sfuggire a questa profonda disperazione e senso della perdita – ho cercato di dare più spazio alla relazione di Cesare con il ragazzo, al quale ho dato maggiore importanza perché mi interessava mettere a confronto i due mondi, quello vecchio e quello nuovo. Il desiderio liberatorio del giovane rispetto al vecchio passatore che non riesce a uscire da quel senso di morte che lo pervade.