Il bene della conoscenza della natura secondo il premio Nobel intervistato dopo l’incontro con gli studenti del Liceo 1
Incontro Jacques Dubochet fuori dal Liceo di Lugano 1, dove ha da poco incontrato gli studenti per una discussione che è stata «molto interessante» – detto non riferendosi, come capita con certi accademici, a quello che lui ha detto, ma alle domande e le reazioni di ragazze e ragazzi. Ci sediamo in una delle panchine fuori dall’edificio e su un taccuino si segna come mi chiamo. «È la mia memoria» spiega. Dubochet, premio Nobel per la chimica – vinto nel 2017 con Joachim Frank e Richard Henderson per la criomicroscopia elettronica – è stato anche il primo dislessico ufficiale del Cantone Vaud.
Che cosa ha significato per lei essere un dislessico?
Credo che tutti i bambini “dis” debbano faticare per integrarsi nella società… ma la dislessia che cosa è? È una caratteristica del bambino oppure è una caratteristica della società in cui si trovano? Oppure una caratteristica dell’interazione del bambino con il sistema? Quando si tratta di studiare il cinese – qui da noi non capita spesso, ma in Francia ci sono classi in cui si studia a scuola –, lì i dislessici risultano avvantaggiati. C’è chi dice che la dislessia sia un difetto, una malattia, addirittura una catastrofe! Ma in una certa misura è un difetto per rapporto a un sistema che tratta in una certa maniera le loro caratteristiche.
Che cosa direbbe a un bambino dislessico?
Che ciascuno di noi è differente. E anche che quello che il sistema esige dai dislessici lo inviterà a trovare delle strade che non sono quelle degli altri… nel mio ambiente sono conosciuto come quello che cerca nuove soluzioni, è possibile – chissà – che io sia così grazie alla mia dislessia.
Che cosa l’ha portata a dedicarsi alla ricerca scientifica?
(Ride, ndr) È una psicologia un po’ semplicistica, ma un bambino quando affronta le difficoltà ha due possibilità. Da una parte chiamare la mamma perché lo aiuti. Dall’altra, invece di gridare “Mamma!”, c’è la comprensione, il controllo. Ora, noi abitavamo in un piccolo villaggio in montagna e lì, per le nostre paure, ci proponevano la soluzione della religione: una piccola immagine sacra da mettere vicino al letto. Ma con me non funzionava: quello che invece ha funzionato è Copernico. La Terra gira su se stessa, non si ferma e adesso qui è buio, ma domani mattina la rotazione ti avrà di nuovo portato dal sole. Non sto inventando nulla, eh, è una storia vera.
Quello che mi ha portato alla ricerca scientifica non è l’interesse, non è l’entusiasmo, ma è per il bene che fa comprendere. Ma per questo è necessaria anche una certa fiducia nel fatto che possiamo comprendere.
Da dove nasce questa fiducia?
Dalla vicinanza alla scienza. Purtroppo molte persone dicono di avere avuto un’educazione, di essere colti… poi presenti loro qualcosa di matematica o di fisica e dicono “no, io di quelle cose non so niente”. Ma come si può essere così stupidi da dirsi colti e rifiutare la conoscenza della natura?
Fondamentale è la fiducia nella conoscenza. Ma possiamo conoscere tutto o ci sono dei limiti a quello che la scienza ci può dire?
Ah.
Mi rendo che la domanda è un po’ filosofica…
È completamente filosofica ma vede, io ci tengo a distinguere due termini. L’ignoto e il mistero. L’ignoto è quello che non conosco ma che in teoria potrei conoscere, quello di cui oggi non so nulla ma di cui domani potrei sapere qualcosa. Il mistero è invece qualcosa che sfugge, che è oltre la conoscenza. A me piace l’ignoto ma non mi piace il mistero e sono arrivato alla conclusione che nella mia vita il concetto di mistero non è importante.
Prima, qualcuno mi ha chiesto se Dio è importante per me. Gli ho risposto che non sono agnostico – l’agnostico è uno che non sa se Dio esiste —, perché io sono ateo, per me Dio non è un problema, non c’è, basta. È tutto più semplice, così, almeno secondo me.
Che cosa è cambiato con il premio Nobel?
Sa, tutti gli scienziati di un certo livello hanno nella testa l’idea del Premio Nobel. Quelli che dicono “no, a me non interessa” mentono. Per cui, quando la criomicroscopia è diventata una cosa molto importante, era verosimile che un Nobel sarebbe potuto arrivare. Il giorno prima dell’annuncio, quando ho visto che il Nobel per la fisica era stato assegnato alla scoperta delle onde gravitazionali, ho detto a mia moglie e mio figlio che “c’è un 10 per cento che domani tocchi a me”. Era nell’aria, magari non sarebbe stato quell’anno ma quello successivo…
Questo prima. Il dopo è stato speciale. Il premio in sé, la cerimonia è tutto il resto è stato un circo incredibile, etnograficamente interessante ma alla fine è tutto lì. Quello che è davvero cambiato è che all’improvviso, un perfetto sconosciuto diventa qualcuno che quando parla dice la Verità. Ovviamente non è vero, sono la stessa persona di prima e questo contrasto tra quello che sono e sono sempre stato e quello che improvvisamente la società mi dice di essere, non è facile, non è per niente facile.
Ha mai avvertito il peso della responsabilità di parlare “da vincitore di un Nobel”?
Bah. Sarà che sono un vecchio calvinista – in realtà no, non lo sono –, ma per me il Premio Nobel è stato un appello alla responsabilità, a usare al meglio la mia voce. Cosa che cerco di fare, anche incontrando i giovani, parlando loro per aiutarli a sopportare il peso enorme che hanno sulle spalle.
Uno scienziato deve parlare solo di scienza o deve dire la sua anche su temi sociali e politici?
Una persona che si limita a fare lo scienziato, che si limita a fare il cuoco, il marito o qualsiasi altra cosa: che tristezza! E che disgrazia.
Per quanto riguarda la crisi climatica e la tutela dell’ambiente, temi a lei molto cari, come vede il futuro?
Greta Thunberg nel 2018 a Katowice disse ai leader mondiali che stavano proponendo soluzioni inconsistenti perché non osavano dire la verità e cioè che lasciavano il problema alle generazioni future. Ed è vero: la mia generazione ha fatto cose fantastiche e importanti, penso all’inizio della liberazione delle donne, ma ci si è lasciati incantare dal mercantilismo e dal denaro verso un consumismo sfrenato che ha danneggiato l’ambiente. Questi sono i risultati e ricadranno non su di noi, ma sulle generazioni future, sui miei nipoti. L’unica è che i bambini si ribellino e, di fronte alla nostra inerzia, prendano le cose in mano. Lo vediamo con la gestione dei migranti: dove sono i valori umanisti dell’Europa, dov’è quella cultura di cui andiamo così fieri?
Non sembra essere molto ottimista.
No? Non sono ottimista se andiamo avanti come si andati avanti finora, ma possiamo cambiare e in maniera veloce e decisa. E a cambiare saranno i giovani, come quelli con cui ho discusso oggi, perché sui vecchi non si può contare.