Scienze

Covid, il vaccino di Margaret Keenan. E di Elvis

Di che cosa abbiamo bisogno affinché i vaccini contro il nuovo coronavirus siano davvero efficaci?

Il vaccino di Margaret Keenan (Keystone/Epa/Jacob King)
12 dicembre 2020
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È già una delle immagini-simbolo di questa pandemia: Margaret Keenan che, giacchino di lana sopra una maglietta natalizia, che riceve dall’infermiera May Parsons una dose del vaccino Pfizer/BioNtech. Non è la prima persona al mondo a ricevere un vaccino per il nuovo coronavirus, e considerando anche i volontari che hanno partecipato alla sperimentazione non è neppure la prima a ricevere il vaccino sviluppato dall’azienda biotecnologica tedesca. Ma ugualmente è un simbolo. E come tutti i simboli, tra propaganda, marketing e spirito del tempo rappresenta tante cose: la speranza di un ritorno alla normalità dopo mesi di sacrifici; la fine dell’isolamento delle persone più fragili; il successo dell’integrazione e delle frontiere aperte, con la BioNTech fondata da figli di immigrati turchi; la vittoria della scienza, della tecnica e per alcuni addirittura del capitalismo (!) sulla pandemia.

Un’altra foto

La foto di Margaret Keenan ne richiama alla mente un’altra immagine, di oltre sessant’anni fa. Anche qui una persona riceve una dose di vaccino: quello contro la poliomielite sviluppato da Jonas Salk che, insieme al “concorrente” di Albert Sabin, ha portato alla scomparsa della malattia in buona parte del pianeta: oggi il poliovirus di tipo 2 è definitivamente eradicato, altri ceppi rimangono endemici in pochi Paesi. Ma la foto è stata scattata nell’ottobre del 1956: il vaccino è da poco stato approvato, la poliomielite ancora provoca epidemie con, nei soli Stati Uniti, migliaia di morti e decine di migliaia di paralizzati. Mentre tra i bambini la vaccinazione ha subito raggiunto livelli importanti, tra gli adolescenti il livello rimaneva basso, forse perché la polio era nota come “paralisi infantile”, creando l’illusione che i più grandi ne fossero immuni. Finché, e torniamo alla foto, un giovane cantante non si fece vaccinare, con tanto di fotografia che finì su tutti i giornali. Dopo quella foto, anche ragazzi e ragazze si vaccinarono, portando alla rapida discesa dei casi. Con quella foto Elvis – di lui si tratta – debellò la polio negli Stati Uniti, portando, pare, il livello di immunizzazione dallo 0,6 all’80 per cento in appena sei mesi.

Difficile pensare che la vaccinazione di Margaret Keenan avrà lo stesso effetto di quella di Elvis Presley. È anzi difficile pensare, oggi, a una singola celebrità che abbia l’influenza che negli anni Cinquanta e Sessanta aveva Elvis. E, anche ammesso di trovarlo, non è detto che si metta a disposizione di una campagna per la vaccinazione per il Covid e non preferisca appoggiarsi, più o meno in buona fede e più o meno apertamente, a teorie del complotto: così, restando al Regno Unito, per una Regina Elisabetta che si vaccinerà, c’è già un Principe Carlo che, secondo indiscrezioni, non lo farà perché contrario agli Ogm.

Viviamo in una società complessa e complicata e la soluzione per convincere le persone a vaccinarsi non è trasformare virologi e immunologi in persone di spettacolo, negli Elvis del Ventunesimo secolo: per quanto possa apparire allettante, così si rischia di polarizzare ulteriormente il dibattito, allontanando non solo i contrari, ma anche gli indecisi. Chi studia il rapporto tra scienza e società parla di fiducia: bisogna lavorare sulla fiducia, e uno dei primi passi è ascoltare le perplessità e i timori delle persone. Perché certo, la tentazione di prendersi gioco di un principe britannico pure un po’ antipatico è forte – e infatti ci siamo cascati pure in questo articolo –, ma avere perplessità verso un vaccino sviluppato molto velocemente e con una tecnologia nuova non è un privilegio per reali ma un diritto di tutti. E la risposta a questi dubbi non può essere un “lo dice la scienza, tu che ne capisci”.

La fiducia e le fette di formaggio

Una ricetta facile e immediata non c’è. La fiducia la si costruisce anche riconoscendo l’incertezza, evitando di presentare come verità assolute questioni ancora aperte, evitando promesse consolanti che poi rischiano di trasformarsi in delusioni. Per questo è importante dire non solo che i vaccini a Rna messaggero (come quelli di Pfizer/BioNtech e di Moderna) non cambiano il nostro genoma e quindi la storia degli Ogm è più che altro un grosso malinteso, ma anche i dati sull’efficacia dei vaccini – quelle percentuali sempre più alte che si sono sentite nelle scorse settimane – raccontano solo parte della storia. Un conto è l’efficacia che si può misurare in una sperimentazione clinica, insomma quante persone vaccinate risultano positive rispetto a un gruppo di controllo non vaccinato; un altro è l’efficacia “nella vita vera”, la capacità di ridurre il numero di persone malate, ricoverate e morte, un dato che dipende da molti altri fattori, tra cui la possibilità di contagiare anche da vaccinati altre persone, aspetto da cui dipende la cosiddetta immunità di gruppo. In inglese esistono due termini distinti per i due tipi di efficacia: la ‘efficacy’ e la ‘effectiveness’.

Il vaccino costituirà, almeno in un primo tempo, una protezione in più; ma appunto in più, non la soluzione definitiva, non la liberazione. Nella gestione del rischio si parla del “modello del formaggio svizzero”, ideato da Orlandella e Reason. Dobbiamo immaginare la sicurezza come un insieme di fette di formaggio coi buchi: ogni strato è imperfetto, lascia passare errori e problemi, ma più fette mettiamo meno è probabile che i buchi restino scoperti; una fetta da sola non risolverà tutti i problemi e ogni strato, per quanto pieno di buchi, conta. Il vaccino sarà, speriamo, una fetta con pochi, piccoli buchi, ma avrà bisogno degli altri strati, quelli che ormai conosciamo bene: lavarsi le mani, arieggiare i locali, mettere la mascherina.


Il modello del formaggio svizzero (thespinoff.co.nz)

L’effetto Elvis

Certo, mettere Elvis sulle prime pagine dei giornali è più semplice. Ma non così efficace (come ‘efficacy’ e come ‘effectiveness), neanche ai tempi della polio. La statistica sull’Effetto Elvis citata prima, con il re del rock che avrebbe portato a quell’incredibile aumento della copertura vaccinale, è a essere gentili “dubbia”. Insomma, una leggenda metropolitana. Certamente il sostegno che Elvis diede dalla campagna di vaccinazione fu importante, ma – come sostiene lo storico di Cambridge Stephen Mawdsley – non fu decisivo: la svolta provenne dagli stessi adolescenti che diedero il via a una campagna “dal basso”, fatta di sensibilizzazione porta a porta, di feste in cui poteva entrare solo chi era vaccinato. Non solo è stata costruita una fiducia, ma soprattutto si è data fiducia ai diretti interessati, in questo caso ragazzi e ragazze.
E la foto di Elvis, per quanto importante, era solo un simbolo.