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L'ultimo dei miei cani: Alain Delon, Loubo e tutti noi

L’amore che proviamo per gli animali da affezione spesso porta a ignorare la loro autonomia e dignità, ci spiega il filosofo Simone Pollo

(keystone)
23 agosto 2024
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Loubo Delon sopravviverà al suo padrone: la famiglia di Alain, il divo del cinema scomparso domenica scorsa, ha infatti deciso di disattendere il desiderio dell’attore di essere seppellito insieme al suo cane. Il pastore belga Malinois di dieci anni avrebbe quindi dovuto essere “addormentato” senza validi motivi di salute, cosa peraltro legale in Francia dove non ci sono requisiti per praticare l’eutanasia animale. Le proteste di associazioni e attivisti hanno portato, sembra peraltro senza troppa difficoltà, la figlia Anouchka ad annunciare che Loubo non sarebbe stato ucciso.

In una intervista del 2018 a ‘Paris Match’, Alain Delon aveva motivato questa sua decisione con il profondo legame tra lui e Loubo e il fatto che, una volta morto, il cane avrebbe troppo sofferto per la mancanza del suo padrone. Una giustificazione che ha suscitato commenti ironici sull’ego e la salute mentale dell’attore, ma che merita una riflessione più approfondita sul rapporto tra esseri umani e animali da compagnia e come in generale ci rapportiamo alle specie non umane. Ne abbiamo parlato con Simone Pollo, professore di bioetica alla Sapienza di Roma.

Simone Pollo, dando per buona la motivazione di Delon, che cosa c’è che non va nel suo amore per Loubo?

Direi due aspetti che sono in realtà strettamente legati.

Il primo ha a che fare con questo modo di esprimere l’amore, l’affetto e anche la preoccupazione per un animale da compagnia che di fatto fa parte della famiglia. È un atteggiamento fortemente antropocentrico nella misura in cui l’animale di fatto viene considerato come se fosse un bene disponibile. A nessuno verrebbe in mente di fare una cosa del genere nei confronti di un altro essere umano, o se lo facesse – come capitava in alcune tradizioni ad esempio con le mogli sepolte alla morte del marito – andrebbe contro un’idea di autonomia, di libertà, di dignità, di status della persona. Invece pensare che una cosa del genere si possa fare nei confronti di un cane vuol dire pensare che quell’animale di fatto è una cosa, un oggetto che potrà essere amato o ricoperto di attenzione ma che di fatto non ha un’indipendenza dall’essere umano che lo possiede. E che possedendolo può farne ciò che vuole, incluso distruggerlo.

E il secondo aspetto problematico?

È, come detto, fortemente legato al primo e riguarda il fatto che i legami affettivi che proviamo verso gli animali da compagnia – soprattutto verso i cani, ma vale anche per gatti e altre specie – ci portano a non considerarli soggetti indipendenti e autonomi. Possiamo pensare che con la morte del padrone un cane possa sperimentare dolore e sofferenza, ma non che per questo dolore e questa sofferenza gli tolgano la possibilità di avere una vita felice, piena e dignitosa con chi se ne prenderà cura dopo. Le parole di Delon negano completamente questa dimensione di autonomia e di soggettività all’animale.

Questo di Delon è un caso particolare e, per la notorietà del personaggio, estremo. Ma mi pare di capire questi meccanismi possono riguardare chiunque abbia un animale domestico.

Sì, questo è un caso che estremizza una serie di tendenze, ma se una persona ha un minimo di familiarità con chi ha animali d’affezione vede che ci sono molte forme di rapporto “soverchianti”. Il che non significa che non ci sia affetto, che questi animali non siano amati, ma riguarda come questo affetto e questo amore vengono declinati. Avendo io stesso un cane e frequentando quindi luoghi con altri cani, e altri esseri umani con cani, vedo spesso tendenze iperprotettive che di fatto limitano la libertà dell’animale. Perché se hai una certa idea – spesso sbagliata da un punto di vista scientifico ed etologico di quello che è il comportamento del cane – e gli neghi tutta una serie di comportamenti per proteggerlo, sei su una linea vicina a quella di Delon. Il suo rimane certamente un caso estremo, ma rispecchia una tendenza che è molto comune in chi ha animali di affezione.

Del resto quella di negare l’autonomia, di non saper riconoscere l’autonomia, la soggettività e la libertà è una questione che si pone, ovviamente in modi diversi, anche nei rapporti tra esseri umani, nelle relazioni affettive e di amicizia, in quelle tra genitori e figli.

Come notava già Darwin, vi sono differenze di grado e non di qualità tra umani e animali non umani. Però queste differenze ci sono: quanto sono rilevanti dal punto di vista morale? Glielo chiedo sia in generale, sia nel caso specifico degli animali da affezione.

In generale queste differenze, che sono appunto di grado, tra esseri umani e altri animali vanno riconosciute innanzitutto per il bene degli animali stessi. È vero che a nessuno verrebbe in mente di far guidare un bus a un cane o di affidare un’operazione chirurgica a uno scimpanzé, ma è altrettanto vero che spesso proiettiamo capacità umane sugli animali e questo danneggia il loro stesso benessere. Interpretiamo comportamenti e bisogni degli animali come se fossero comportamenti e bisogni umani il che è sbagliato non solo dal punto di vista scientifico ma anche pratico.

È vero che c’è una continuità e che noi possiamo comunicare emozioni e capire gli altri animali, ma questa continuità spesso sfocia in una indebita attribuzione di capacità e di caratteristiche umane agli animali.

E per quanto riguarda gli animali da affezione?

Gli animali da affezione come il cane, e in misura minore anche il gatto, hanno una nicchia ecologica nella relazione con l’essere umano. Sono animali che esistono perché c’è stata una relazione di domesticazione e di coevoluzione con l’essere umano. La questione diventa quindi ancora più complicata, non solo perché la tendenza ad antropomorfizzare è particolarmente forte, ma anche perché effettivamente ci sono dei bisogni condivisi fra esseri umani e animali d’affezione.

Insomma, un conto è un cane, un altro un lupo.

O un orso, per citare un caso tristemente noto almeno qui in Italia. Il problema più comune, oggi, nell’interazione fra esseri umani e animali è quello di non riconoscerne la specificità etologica ed ecologica. Non possiamo pensare che gli orsi stiano lì a preoccuparsi dei nostri bisogni: l’orso fa l’orso, punto e pensare che esistano “esemplari problematici” – come si usa dire con una terminologia orrenda e scientificamente completamente infondata – è una follia. L’orso è problematico nella misura in cui l’essere umano non è in grado di avere una forma di tutela del territorio che preveda una convivenza pacifica, al netto del fatto che gli incidenti possono sempre capitare.

Abbiamo parlato degli animali da affezione e di quelli selvatici. Cosa possiamo dire per quelli di allevamento? Anche in questo caso c’è stato un processo di coevoluzione, ma con un esito molto diverso.

Le origini sono, dal punto di vista biologico ed evolutivo, simili. Ma oggi la stragrande maggioranza degli animali che sono stati addomesticati e che utilizziamo per la produzione non vivono più in quella che potremmo definire una nicchia ecologica. Parliamo, per gli animali d’allevamento, di una produzione industriale in cui di fatto non c’è una relazione con gli esseri umani. Gli animali allevati industrialmente sono di fatto cose, oggetti che vengono fatti nascere, crescere e vengono soppressi con forme di interazione che sono sempre più asettiche. Il rapporto tra uomo e animale, in queste situazioni, è simile al rapporto che un operaio può avere con la scocca dell’auto che sta producendo; il che porta a una serie di problemi perché l’animale in questione non è un pezzo di metallo ma un essere senziente, è un essere che nonostante tutto ha una sua autonomia, che nonostante tutto ha una sua volontà.

Tornando agli animali da affezione come Loubo, la legge (almeno quella francese) avrebbe permesso la soppressione. È necessario un adeguamento?

Siamo all’interno di un processo, iniziato almeno nell’Ottocento, di dereificazione degli animali. Di fatto oggi almeno nei sistemi giuridici europei gli animali non sono più in senso stretto delle cose di cui si può disporre liberamente come io posso disporre liberamente del mio televisore, ma hanno una forma di soggettività giuridica. Non di personalità giuridica, perché non esistono diritti in senso proprio per gli animali – tranne alcuni casi a seguito di alcune sentenze, ad esempio casi di scimpanzé sul Paese del Sud America – ma di soggettività sì. Il Trattato di Lisbona, che possiamo considerare la Carta costituzionale dell’Unione europea, afferma che gli animali non sono semplici cose ma hanno degli interessi che devono essere tutelati.

È chiaro che, trovandoci proprio nel mezzo di un processo, è pieno di ambiguità come è il caso della legge francese che lascia alla discrezione del veterinario decidere se è il caso o meno di sopprimere un animale. In altri Paesi non è possibile, perché un animale sano, che non ha problemi di salute o che non rappresenta un pericolo, non può essere soppresso.

Questa maggiore attenzione potrebbe portare all’esito paradossale di aumentare la sofferenza? Riconoscere il valore della vita animale potrebbe ad esempio ritardare il ricorso all’eutanasia di un cane malato terminale.

In linea di principio è possibile e anzi ci sono già dei casi in cui siamo confrontati con una situazione simile. In Italia ad esempio abbiamo una legge che proibisce la soppressione degli animali vaganti o di quelli che, senza padrone, sono detenuti nei canili. In altri Paesi, ad esempio negli Stati Uniti, c’è un tempo massimo in cui l’animale può stare in canile e poi gli viene praticata l’eutanasia.

Il problema è che questa legge, che potremmo definire “animalista” nel senso che giustamente vuole proteggere la vita degli animali, di fatto crea una situazione in cui animali sociali come sono i cani, trascorrono la vita in una condizione di deprivazione comportamentale. Io non ho una risposta, non ho una formula per risolvere questo problema, però vedo il problema, vedo il conflitto fra la tutela del bene della vita dell’animale e la prospettiva di far vivere all’animale una vita in una condizione qualitativa molto bassa se non miserevole.