Ha dato forma sistematica alla rivoluzione etica della modernità incentrata su soggetto, libertà e prassi. Poi l’Ottocento ha tradito Kant
Nella sua ricchezza e varietà, la filosofia di Immanuel Kant ha al cuore una singola domanda: quali sono le potenzialità e limiti della ragione umana? Ragione che può certamente operare “pura”, portare a una conoscenza indipendente dall’esperienza e che Kant ha esaminato nella prima ‘Critica’, pubblicata nel 1781 e in una seconda edizione, ampiamente rivista, qualche anno dopo. Ma la ragione può anche essere pratica, riguardare l’azione e il comportamento umano, ed è il tema della seconda grande opera di Kant, la ‘Critica della ragion pratica’ del 1788 oltre che di altri scritti. Se la prima critica ha come “nemesi” lo scetticismo del filosofo scozzese David Hume, la seconda è debitrice tra gli altri di Jean-Jacques Rousseau e Adam Smith, le cui idee sono riprese e rielaborate da Kant. «C’è, anche in etica, un prima e un dopo Kant e la maniera più sintetica per presentare questo passaggio la troviamo in un libro di Jerome B. Schneewind che si intitola ‘The Invention of Autonomy’, l’invenzione dell’autonomia, nel quale argomenta in modo articolato e convincente che Kant, appunto, ha inventato il concetto di autonomia» ha spiegato Roberto Mordacci, professore di Filosofia morale all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.
In che senso Kant ha inventato l’autonomia?
Chiaramente questa idea esisteva anche prima. Ma il significato dell’autonomia, il suo ruolo e la sua funzione nell’ambito dell’etica li dobbiamo a Kant. Kant è stato infatti il punto di convergenza di una serie di elementi che hanno rappresentato il passaggio alla Modernità e che potremmo riassumere con tre parole chiave: soggetto, libertà, prassi. Rispetto al premoderno abbiamo il soggetto anziché l’essere, la prassi anziché la speculazione e la libertà anziché il bene. Kant prende queste tre grandi categorie e dà loro una forma organica, sistematica, in cui il soggetto è definito dalla sua libertà in termini pratici, cioè come un potere di autodeterminazione, cioè un potere che contiene la propria legge. In quel momento il Moderno secondo me trova la sua piena ed efficace sintesi che si dà di fatto nell’Illuminismo e si coagula intorno ai valori della libertà, dell’eguaglianza e della solidarietà o fraternità.
Porta a compimento un cambiamento iniziato, immagino, con l’umanesimo.
Sì. Si riduce fortemente, pur senza scomparire, l’influenza di Tommaso d’Aquino e della scolastica, Cartesio ricentra il tema della conoscenza e della costruzione del sapere intorno al soggetto e contemporaneamente in Francia Michel de Montaigne e gli scettici mettono al centro la prassi: il tema è chi sono io, non più qual è l’ordine del mondo nel quale sono inserito. L’impianto della filosofia cristiana medioevale viene meno, in termini sia teoretici sia morali, e l’essere umano scopre in qualche modo, anche attraverso lo scetticismo, di essere abbandonato a sé stesso e di dover prendere nelle proprie mani il proprio destino. Questo passaggio solitamente viene descritto come ‘hybris’, un atto di arroganza, ma in realtà è un momento di grande spaesamento. Al quale però i moderni rispondono dicendo: proviamoci, non abbiamo altra scelta, i grandi schemi rassicuranti del Medioevo non sono più credibili, cerchiamo altro.
E cosa è questo altro?
Ci sono proposte interessanti, come la concezione geometrica e il metodo scientifico, ma per l’etica al cuore troviamo il discorso sulle passioni. Anche per un filosofo razionalista come Spinoza, l’etica ha a che fare con le passioni, è il modo in cui noi gestiamo le nostre passioni, il nostro compito come essere umano è capire le passioni, comprenderle e abitarle radicalmente fino in fondo, identificandoci in esse per essere “causa” di noi stessi: anche Spinoza fu, a suo modo, un teorico dell’autonomia, anche se declinata in maniera differente da Kant.
Tornando alla discontinuità rispetto alla premodernità, alla fine Kant arriva, con il suo imperativo categorico, a una soluzione simile alla ‘regola d’oro’: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te.
C’è una continuità indubbia fra la regola d’oro e l’imperativo categorico e in particolare con la seconda formulazione: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”. Studiosi come Alan Donagan hanno proprio sostenuto che in fondo questa formulazione dell’imperativo categorico è, né più né meno, la regola d’oro, ed è vero. La discontinuità sta nel fatto che per i moderni questa regola va cercata nel soggetto, mentre per gli antichi e i medioevali era fuori dal soggetto, nell’ordine dell’essere per gli antichi e nell’ordine del creato per i medioevali. È vero che la regola d’oro non dice “fai agli altri ciò che l’ordine del creato impone”, ma “non fare ciò che non vorresti fosse fatto a te”: c’è un rimando all’interiorità, ma se andiamo a guardare cosa c’è in questa interiorità troviamo, per i premoderni, il rapporto con Dio, con il bene, con l’assoluto. Per i moderni questo rimando al trascendente non c’è, c’è l’essere umano con le sue passioni e la sua capacità critica. Kant parte da qui: anche per lui senza sentimenti non c’è vita etica ma è consapevole che per cercare un fondamento normativo non basta generalizzare questi sentimenti, come propongono alcuni pensatori come David Hume e Adam Smith. Bisogna arrivare alla ragione, per avere qualcosa di davvero universale.
Kant fa una sintesi della modernità. E dopo cosa succede?
Succede che si prende una direzione che non è quella che Kant aveva pensato e sperato. Questa almeno è la mia lettura che chiaramente non tutti condivideranno ma essenzialmente dopo Kant l’etica prende due strade diverse. La prima è quella di dire che se il soggetto è, da un punto di vista etico e da un punto di vista conoscitivo, il punto di generazione di tutta la conoscenza della realtà, allora esso è il punto di generazione della realtà tout court, perché che altro reale c’è se non quello che ci appare? Il tutto discende interamente dal soggetto. È la strada di Fichte, di Hegel, dell’idealismo. L’altra strada è quella empirista che sostanzialmente dice che la ragione, in termini speculativi, non può formularsi come scienza. Solo le scienze empiriche possono farlo e quindi facciamo fare tutto alle scienze empiriche, inclusa l’etica. È la strada del positivismo. Questi due sviluppi, l’idealismo da una parte e il positivismo dall’altra, sono esattamente ciò che Kant cercava di evitare: lui ha sempre cercato di tenere insieme lo spirito e l’empiria, e la chiave di volta in etica era la nozione di libertà. Ma nell’Ottocento accade questa cosa drammatica, con le scienze dello spirito che prendono una strada fortemente storicistico-idealistica e le scienze naturali che, insieme a quelle sociali, prendono una strada più empiristica. Il che ci porta, ancora ai giorni nostri, a una separazione sempre più netta tra filosofia e scienza, il che non è affatto un bene.
E in ambito etico?
Abbiamo l’utilitarismo di Jeremy Bentham: una azione è buona se è utile, cioè se produce il più alto grado di felicità per il maggior numero di persone. Lo possiamo considerare una delle forme dell’empirismo. Per il positivismo diciamo “duro e puro”, l’etica diventa semplicemente quella scienza che si occupa di ciò che gli esseri umani desiderano, senza nessuna dimensione normativa su ciò che è giusto. Nello storicismo l’etica finisce per essere un “di cui”. Per Hegel la Moralität kantiana è un’astrazione, un universale che non si è mai visto. Tutto ciò che abbiamo, storicamente inteso, è la Sittlichkeit che di solito traduciamo con ‘eticità’ e che è locale: ogni tempo ha i suoi costumi, ogni epoca e cultura ha la sua eticità. Però poi nei ‘Lineamenti di filosofia del diritto’ Hegel afferma che una persona deve fare ciò che la sua comunità gli dice di fare, perché quello è il suo spirito oggettivo. Se l’etica è sempre relativa al tuo tempo, ma per te è assoluta perché sei quella fase lì dello sviluppo dello spirito, allora l’etica di fatto scompare, perché quello che conta è la filosofia della storia. A meno che tu non sia un welthistorisches Individuum, un individuo storico-universale che porta al superamento di quella figura dello spirito.
È la negazione dell’autonomia che in Kant era centrale.
Potrei dirla con una battuta: l’Ottocento è il tradimento dell’Illuminismo. Lo vediamo anche politicamente: Kant e in generale tutti gli illuministi erano o democratici o repubblicani. Nell’Ottocento diventano tutti monarchici, come Hegel, oppure autoritari, come il positivista Comte.
Nel Novecento cosa accade?
In ambito continentale c’è una ripresa dell’etica con la fenomenologia, con una riflessione sui valori che è un’eredità kantiana, in contrasto alla teoria dei valori dello storicismo. Nei Paesi anglosassoni, invece, l’utilitarismo diventa dominante, finché all’inizio del Novecento abbiamo l’intuizionismo etico, con la svolta di George Edward Moore, secondo il quale le nozioni di bene e di giusto non sono definibili, non le si possono ridurre a un contenuto empirico e noi ne abbiamo, appunto, una intuizione non riconducibile all’esperienza. Nasce da qui un grande dibattito di metaetica, in cui non ci si chiede più cosa è giusto e cosa è sbagliato ma se è davvero possibile fare un discorso etico. Negli anni Cinquanta del Novecento si ricomincia a parlare di ragioni morali e nel 1958 John Rawls pubblica un articolo di poche pagine che è la prima versione della sua ‘Teoria della giustizia’, perché va bene la metaetica e la natura del linguaggio, ma alla fine dobbiamo vivere in una società, il tema della giustizia è cruciale e l’utilitarismo con il suo calcolo della felicità è insufficiente. Rawls va quindi a ripescare la tradizione liberale e Kant, quindi è anche grazie all’eredità kantiana se il dibattito etico normativo è ripartito. Dagli anni Settanta abbiamo non solo una ripresa dell’etica kantiana, ma anche di quella aristotelica con l’etica delle virtù, senza dimenticare l’utilitarismo che rimane una tradizione importante. Oggi abbiamo una pluralità di teorie morali molto fiorenti, molto attive sia in campo teorico, sia in campo applicato. E l’idea che ci sia un pluralismo a me piace perché, come detto, i periodi bui dell’etica sono quelli in cui l’etica si è inabissata perché era parte della filosofia della storia oppure perché era parte della scienza.
Per concludere, l’eredità kantiana in etica dove è particolarmente forte?
Sicuramente nelle cosiddette etiche applicate: troviamo una vena kantiana che arricchisce le discussioni in neuroetica, in bioetica, in etica ambientale e così via. Ma credo che l’eredità più forte dell’etica kantiana sia nel dibattito sui fondamenti della normatività, nel rispondere alla domanda sul perché essere morali, sul perché non basta descrivere il mondo e il comportamento umano, non basta dire cosa facciamo ma bisogna anche chiedersi cosa bisogna fare. E un lascito kantiano molto forte, ancora da riscoprire, è nella teoria critica della società: come possiamo criticare l’oppressione, la discriminazione e l’autoritarismo se non in nome dell’autonomia delle persone? Ma questo è un tema da riprendere a fondo un’altra volta.
3 – continua