Qualcosa è andato storto durante un incontro su complottismo e psicopatologia alla Statale di Milano
C’è quella barzelletta dell’ubriaco che imbocca l’autostrada nel senso sbagliato, sentendo alla radio il messaggio di allerta per un veicolo contromano, esclama “Uno solo! Ma saranno almeno duecento!”. Lunedì sera quella barzelletta è diventata parzialmente realtà durante una serata che l’Università degli studi di Milano ha organizzato, nell’ambito delle celebrazioni per i cent’anni dell’ateneo, sulle fantasie di complotto.
L’incontro prevedeva un dialogo su complottismo e psicopatologia tra Lisa Bortolotti, docente di Filosofia delle scienze cognitive a Birmingham, e lo psichiatra e docente alla Sapienza di Roma Vittorio Lingiardi, seguito da una visita guidata alla mostra “Complottismo, fake news e altre trappole mentali” in corso fino al 22 febbraio al Museo della Filosofia (un’altra bella iniziativa della Statale di Milano che vale sicuramente una visita: vedi museodellafilosofia.unimi.it per gli orari e alcuni contenuti online). Un primo imprevisto è stata l’assenza di uno dei relatori – Lingiardi, indisposto per un’influenza –, ma Bortolotti ha degnamente sopperito con un interessante intervento sul rapporto tra psicopatologia e complottismo. C’è la tendenza, da parte di chi respinge queste “teorie alternative” – un elenco minimamente esaustivo richiederebbe una pagina intera, diciamo che si va dalle missioni Apollo girate in studio alle scie chimiche ai microchip nei vaccini –, di considerare malati di mente i sostenitori. Un atteggiamento che si vede già nella scelta di parole provenienti dalla psichiatria come “deliri” e “paranoia” e che, ha spiegato Bortolotti, è controproducente. Perché i meccanismi mentali che portano una persona a credere che non siamo mai andati sulla Luna sono gli stessi che portano altre persone a credere che non c’è un complotto globale per farci credere che in realtà ci siamo andati: la ricerca di spiegazioni, e di un colpevole quando le cose vanno male, l’avversione di fronte all’incertezza, l’identificarci nelle nostre credenze sono tratti perfettamente normali della mente umana. Del resto – esempio fatto dalla stessa Bortolotti – se vedessimo degli omini verdi in mezzo alla strada concluderemmo subito che ci hanno fatto visita gli alieni o “proteggeremmo” la nostra idea che gli Ufo non esistono pensando di aver visto male o di aver incontrato delle persone mascherate? Quello che separata i “teorici alternativi” dai “teorici mainstream” sono le premesse di partenza: alla base di molte fantasie di complotto c’è spesso una profonda diffidenza verso le autorità, una sfiducia generalmente motivata da ingiustizie subite in passato.
Poi è arrivata la barzelletta dell’ubriaco contromano. Mentre Bortolotti concludeva con l’invito ad ascoltare le storie delle persone per scoprire le ragioni che stanno dietro queste credenze, dal pubblico una persona ha alzato la mano osservando che non capisce perché si dice che i complottisti siano loro, dal momento che a fare i complotti è ad esempio il governo degli Stati Uniti con i falsi filmati degli aerei che si schiantano sulle Torri gemelle di New York, fatte saltare in aria con l’esplosivo. Un’altra signora ha fatto presente che sostenere “le verità istituzionali” è la morte della filosofia, difendendo la totale libertà di pensiero – dimenticandosi che quel pensiero dovrebbe anche essere orientato a cercare la verità –. Gli applausi, scarsi e concentrati in una specifica parte della sala, lasciano pensare di aver a che fare, in questo caso letteralmente, con la classica “minoranza rumorosa”, un gruppo di persone che vedendo sulla locandina la parola “complottismo” ha pensato di andare a manifestare il proprio dissenso, nonostante l’evento fosse incentro sull’esatto contrario del dare dei pazzi ai “teorici alternativi”.
L’errore – ma forse sarebbe meglio parlare di ingenuità – degli organizzatori è stato pensare di avere a che fare con un pubblico di “pensatori mainstream” e quindi l’intervento era rivolto a loro. Certo è difficile prevedere chi parteciperà a un evento pubblico (chiedere “scusi lei è complottista?” all’entrata non è il massimo) e il dibattito è stato tutto sommato gestito bene. La morale che si può trarre da questo a tratti divertente siparietto è che d’accordo, nessuno è pazzo – o, se preferiamo, siamo tutti pazzi – e a separarci sono solo le premesse di partenza, ma questo non basta per riuscire a dialogare serenamente.