Intervista al vincitore del Premio Balzan 2019 per la filmologia, ospite a Locarno dell’Università della Svizzera italiana e del Locarno Film Festival
Scoprire il cinema da una prospettiva insolita, quella della filmologia, una disciplina scientifica che la Fondazione Balzan ha voluto premiare nel 2019 con un Premio Balzan andato a Jacques Aumont, professore emerito dell’Università Sorbonne Nouvelle (Paris-3). Aumont è stato ospite, mercoledì scorso, a Locarno per un incontro organizzato dalla fondazione in collaborazione con l’Università della Svizzera italiana e il Locarno Film Festival. Lo abbiamo incontrato per alcune domande.
Perdoni la domanda un po’ banale, ma che cosa si intende di preciso con ‘filmologia’?
La domanda è giusta, perché in francese la parola ‘filmologie’ non esiste più: è stata impiegata per una decina d’anni, quando nel 1948 alla Sorbona è nato un “istituto di filmologia” che, come da etimologia, si dedicava allo studio razionale del cinema. In pratica si tratta di applicare ai film delle scienze umane, con psicologi, sociologi, anche antropologi e ovviamente storici che studiavano il cinema ciascuno partendo dalla propria disciplina.
Questa esperienza si è conclusa dopo una dozzina d’anni e il cinema è poi tornato nelle università europee e americane verso il 1970 ma non con il nome di filmologia, tranne che in Italia. In Francia si parla di ‘Analyse de film’ e negli Stati Uniti di ‘Film studies’.
Non è solo una questione di vocabolario: se c’è una filmologia c’è una scienza, mentre nei ‘Film studies’ abbiamo lavori certamente razionali, almeno alcuni, ma non esattamente scientifici.
Se parliamo di scienza si pensa a un metodo: la filmologia aveva, o ha, un proprio metodo?
No, la filmologia non aveva un metodo e di principio lasciava a ognuno gli strumenti della propria disciplina. Una situazione paradossalmente simile a quella attuale: oggi gli studi sul cinema sono in maggioranza storici, qualcosa di antropologia, poi sociologia, un po’ di psicologia.
Varie discipline e anche varie ideologie: il femminismo, gli studi post-coloniali, tutte analisi molto interessanti ma che non riguardano propriamente i film.
Perché questa frammentazione?
Non lo so: questi sono stati i cambiamenti avvenuti nello studio dei film, ma non so indicare dei motivi. Negli anni Settanta e Ottanta ad esempio si faceva poca storia del cinema: c’erano, sì, degli storici ma facevano più che altro elenchi e cataloghi, mentre adesso abbiamo degli ottimi storici cosa che mi piace molto perché secondo me non si può ragionare senza conoscere la storia – anche se ancora oggi molti vogliono riflettere senza storia.
Una possibile spiegazione è che i vari approcci sono troppo imperfetti, hanno troppi difetti per durare. Anche le mode intellettuali hanno avuto il loro peso ma davvero, non sono in grado di spiegarmi questa frammentazione.
Il suo lavoro dove si situa?
Il mio lavoro non consiste nell’andare contro questi approcci che sono tutti interessanti, se fatti bene. Quello che sostengo è che se si vuole studiare il cinema bisogna partire dal media, dalla materia del media: l’immagine, il suono. E solo dopo si potrà dire qualcosa sul contesto storico, sulle influenze ideologiche, sugli effetti politici o psicologici. Prima però bisogna descrivere e analizzare il media per comprendere come funziona.
Quali strumenti utilizzare per analizzare il media? Il cinema è immagine, suono, storia…
Questo è il problema fondamentale. Nell’analisi dei film c’è una forte eredità che proviene dalla storia dell’arte, dall’analisi della pittura, penso ad esempio a studi importanti come l’iconografia di Panofsky che continua ad avere un’importante influenza. Poi le riflessioni sulla fotografia, un settore molto vario a seconda che si prenda Walter Benjamin, Rosalind Krauss o Roland Barthes. Gli studi sonori che, per quanto riguarda il cinema, sono meno sviluppati ma sono comunque importanti. E poi arriva un momento in cui bisogna ricordarsi che il cinema non è né la pittura né la fotografia né il suono ma tutte queste cose insieme più una cosa estremamente importante vale a dire il tempo.
Il problema del media cinematografico è che non è un media semplice ma è un media complesso, con un duplice rapporto con la realtà. C’è la relazione diretta con la realtà così come è, l’automatismo della riproduzione oggi in realtà un po’ in crisi con il digitale; e poi c’è la finzione, la messa in scena: due aspetti in contraddizione che il cinema mette insieme.
Ma questa analisi del media cinematografico riguarda tutto il cinema: documentari, film d’animazione, di finzione, lavori sperimentali come ‘L’uomo con la macchina da presa’?
Ci sono film ancora più strani di quello di Vertov che ha citato, film d’artista che hanno come principio trasgredire tutte le regole.
Questa è indubbiamente una difficoltà: la storia del cinema è molto varia, molto più della differenza, in arte, tra un quadro figurativo e uno astratto. Per esempio ci sono dei film senza pellicola: è cinema, perché ci sono delle persone che si sono ritrovare in una sala per guardare qualcosa, ma nel proiettore non c’è pellicola. È un estremo, ma c’è anche questo.
Come il brano 4’33”, in cui l’interprete non suona nulla.
Sì, è la versione cinematografica di John Cage. Si può immaginare di tutto, e tutto è stato fatto: dei film in cui non compare niente, film che durano un quarto di secondo o cinquanta ore… è difficile mettere tutto sotto un’unica etichetta di “cinema” e infatti quelli che fanno questo lavoro alla fine si specializzano, è praticamente impossibile parlare di tutto.
Io stesso cerco di non trascurare nulla perché trovo tutto molto interessante, ma certe volte è impossibile. Come fai a parlare di finzione per un film senza pellicola?
In cosa la filmologia si distingue dalla critica?
Ci sono molte differenze. Il critico dà un’opinione: intelligente, informata, ragionevole, argomentata – il più delle volte, alcuni critici non argomentano affatto –, ma gli studi universitari non sono fondati sulle opinioni, bensì sui fatti. Poi ovviamente non parliamo di una scienza dura, la differenza è sfumata, ma il principio è questo. Alcuni colleghi dell’America del Nord hanno sviluppato un approccio neoformalista, partendo dal formalismo degli anni Venti del Novecento, che con alcune regole precise permette di analizzare i film senza esprimere opinioni. Funziona fino a un certo punto, perché arriva un momento in cui per andare avanti con l’analisi del film si deve esprimere quello che si sente… è così anche con la pittura, ma lì è più facile perché in genere c’è una certa distanza, non condividiamo i sentimenti di Botticelli e neanche di Munch. Nel cinema questa distanza inizia a vedersi per alcuni film come quelli di David Griffith che si è obbligati a tenere a distanza perché ideologicamente insostenibili. Riusciamo quindi a descrivere le emozioni che suscita il film in maniera obiettiva. Per un film recente è invece più difficile.
La fondazione Balzan stabilisce che metà del premio sia dedicato alla ricerca.
Lo spirito del Premio Balzan è di favorire i giovani ricercatori: non è la mia ricerca a essere finanziata, ma quella di persone molto più giovani di me. Il premio è stato utilizzato in particolare per delle borse di studio ed è fantastico perché abbiamo trovato dei giovani ricercatori straordinari con dei lavori di grande qualità. In settori che non sono affatto miei: l’idea non è proseguire la mia ricerca, ma stimolare nuovi lavori nel campo dell’estetica. Quest’anno abbiamo un giovane francese con un progetto nel campo dell’iconologia e una giovane russa che lavora in Inghilterra sul Deep learning.