Tra film, documentari e podcast, voce di punta del nostro cantone, il ‘cronista ticinese’ torna su una vicenda ormai dai più dimenticata
Olmo Cerri è stato definito oggi, in occasione della presentazione de ‘La scomparsa di Bruno Breguet’, un cronista ticinese. Seppure sia riduttivo, va detto che come pochi sa raccontare la storia di personaggi e vicende controverse del nostro cantone; questo sia per la poesia che riesce a introdurre nella cronaca storica, sia, soprattutto, per la capacità di raccontare il mondo che lo circonda intrecciandola con il proprio vissuto. Non solo, quello che arricchisce le sue opere è proprio la capacità di confrontare e mettere in discussione i suoi principi. Penso ai podcast di successo (‘Quegli stupefacenti anni zero’, ‘Macerie’), ma anche a tanti suoi documentari.
In questo film inserito in Panorama Suisse si va a scandagliare la vicenda, ormai dai più dimenticata, di Bruno Breguet. È una vicenda scomoda, controversa, che ci pone a confronto con tematiche più che attuali, come del resto molti dei film visti in questo giorni. Che fine ha fatto Bruno Breguet? Non lo sappiamo, così come non riusciamo a spiegarci come la sua storia sia caduta nell’oblio.
Giovane militante di Minusio, da idealista in lotta per un mondo migliore in pochi anni è entrato in contatto con i principali gruppi legati alla lotta armata. Appena ventenne, nel 1970 viene arrestato in Israele mentre tenta di introdurre materiale esplosivo per sostenere la resistenza palestinese. Forse in procinto di provocare un attentato, forse semplicemente in atto di provare la sua fedeltà alla causa. Sconterà sette anni di carcere, anni cruciali, nei quali studierà (“io chiedevo di poter studiare, non di essere liberato”), tesserà legami importanti, rafforzerà la sua posizione di militante. Una scuola dell’odio, come intitola l’omonimo libro in cui racconta la sua prigionia, pubblicato da RedstarPress tre anni dopo la scarcerazione (nel 1980, poi ripubblicato nel 2015). Anni che forse lo cambieranno per sempre modificando quegli ideali, pacifisti in una propensione alla lotta armata. Breguet dedica la sua vita a una sua personale visione di giustizia sociale, che include l’avvicinamento alla banda del famigerato Carlos e diversi attentati di matrice terroristica. Nella sua storia anche due importanti amori, la fondazione di due famiglie, prima a Berlino poi in Grecia, e nel 1991 un ipotetico avvicinamento ai servizi segreti (Cia).
Insomma, c’è tutto quanto ci vuole per un romanzo avvincente, salvo che, come spesso accade, questa è la realtà. Una realtà raccontata da Cerri attraverso puntigliose ricerche d’archivio, i diari di Breguet, le lettere, i resoconti della polizia segreta che lo seguiva, ma soprattutto al fianco delle persone che l’hanno conosciuto e che hanno percorso con lui più o meno lunghi tratti di strada. Evitando di cadere nella mistificazione ma al contempo tenendosi ben lontano da giudizi moraleggianti, cercando soprattutto di capire il perché. Tutto questo ne fa una narrazione che, anche se non ci porterà ad affezionarci a Breguet, ci aiuterà a riflettere tentando di capire le sue gesta. L’inchiesta quindi non sarà solo storica, ma esistenziale, porterà a riflettere sul senso della militanza, su suoi limiti e sulla voglia di cambiare un mondo che sembra voler continuare dritto per la sua strada ancora oggi con i morti nel Mediterraneo, le guerre, la crisi climatica.
Molto toccante è il rapporto che il regista costruisce negli anni con i compagni di lotta di Breguet: Claudia Ribi, Gianluigi Galli, Marina Berta, Giorgio Bellini e Theo Mossi. La loro storia si intreccia con quella del protagonista, per poi prendere derive di lotta diverse, più pacifiste, verso altre zone di conflitto, e spesso ai margini di questa storia, come ascoltatori, amici. C’è una sorta di distanziamento dalle sue azioni: “Il terrorismo, per chi vuole cambiare il mondo, è uno strumento inaccettabile”, ma anche di profonda amicizia, “era simpatico, calmo, oggi manca molto, aspetto una sua chiamata”.
“Ho sentito la vicinanza con il giovane Breguet quando scriveva nel suo diario ‘Cosa posso fare io per le ingiustizie di questo mondo?’. Questa è la molla che ha mosso la mia ricerca”, racconta Cerri al termine della proiezione. Quasi quarant’anni dopo la partenza di Breguet per Israele, si poneva le stesse domande, filmando per la prima volta una manifestazione antimilitarista a Lugano. Da qui parte il lavoro dell’autore, che fa parte di una generazione diversa, rispetto a quella del 1968. Ci sono ancora gli stessi ideali ma in fondo manca qualcosa: “La generazione precedente aveva la speranza di una rivoluzione, ci credeva, oggi questa non c’è più”.
Il film segue cronologicamente i fatti, intervallandoli a interviste contemporanee, le letture dei verbali e dei diari, i materiali dagli archivi Ssr e soprattutto i filmati in Super8 girati lungo le ricerche, ripercorrendo i viaggi di Breguet “un falso storico, ci sono serviti per apporre uno strato più poetico. Ho cercato di immaginare cosa avrebbe potuto filmare lui”. Alla fine Bruno Breguet scompare, nel 1995, a bordo di un traghetto che da Ancona viaggia verso Igoumenits. Se si sia buttato in mare, sia stato prelevato (dai servizi segreti, dai seguaci di Carlos?), si sia ricostruito una nuova vita, questo non è dato saperlo. Sappiamo però che questa storia ci ha messo di fronte a domande importanti: fino a che punto si può spingere la lotta? Possiamo far sentire la nostra voce anche in maniera pacifista? Quali sono le armi per continuare a promuovere un’utopia condivisa? La cultura, sì, ma anche continuando a porci domande, anche quelle scomode: ‘Cosa sei disposto a fare per cambiare il mondo?’.
Il film è stato presentato alle 59esime Giornate del Cinema di Soletta nel gennaio del 2024, e sarà nelle sale ticinesi a partire dal prossimo 26 settembre.