Dal primo lungometraggio censurato dal governo messicano a Harry Potter e Roma, la storia di un bambino la cui vita cambiò vedendo ‘Ladri di biciclette’
Di solito, negli incontri del Festival con registe e registi non c’è bisogno di ripercorrere l’intera filmografia: alcune opere si assomigliano, altre sono “buon artigianato cinematografico” che al più si meritano un accenno. Di solito, ma Alfonso Cuarón non è il solito regista e Manlio Gomarasca, che ha moderato l’incontro con il pubblico domenica, non ha avuto alternative che sforare di quasi mezz’ora sui sessanta minuti previsti per l’incontro – temiamo facendo arrivare Cuarón in ritardo alla proiezione del film che ha deciso di presentare qui a Locarno: ‘Jonas qui aura 25 ans en l'an 2000’ di Alain Tanner.
Già, perché Alfonso Cuarón, prima di essere l’autore «di un cinema libero, popolare e profondamente d’autore» (parole della breve introduzione del direttore artistico Giona Nazzaro), è un cinefilo che, quando ha accettato di ricevere il Lifetime Achievement Award, ha scelto appunto di portare il film di Tanner. E anche la domanda iniziale di Gomarasca, sugli inizi dell’interesse per il cinema tradizionalmente usata per rompere il ghiaccio, ha dato il via a una serie di ricordi. Le prime immagini cinematografiche di cui Cuarón ha memoria – «ma solo qualche secondo» – sono la barba del Merlino disneyano del 1964 che si incastra nella porta. Poi ovviamente tutto quello che un bambino messicano nato all’inizio degli anni Sessanta poteva vedere in tv o al cinema. Finché una sera i suoi genitori uscirono a cena, lasciando il piccolo Alfonso Cuarón con il cugino. «Decidemmo di entrare nella camera dei miei per guardare la tele sperando di poter vedere qualche film per adulti: la sera tardi trasmettevano film che non potevo vedere. Così quella sera vidi un film che cambiò per sempre la mia idea di cinema, un film per qualche motivo che ancora adesso non capisco era preceduto da un bollino che lo indicava come non adatto ai bambini: ‘Ladri di biciclette’».
Era qualcosa di completamente diverso da tutto quello che Cuarón aveva visto fino a quel momento. Non è un semplice aneddoto, quello di un bambino che piangendo per l’emozione capace di trasmettere da Vittorio De Sica decide di voler fare il regista: è la chiave per capire quello che quel bambino farà in seguito, incluso ovviamente l’incredibile ‘Roma’ nel quale l’amore di Cuarón per il neorealismo è particolarmente evidente, nella storia (molto personale e intima) di questa famiglia del quartiere di Roma a Città del Messico negli anni Settanta. Forse è un caso, ma quando Gomarasca gli ha chiesto di ‘Roma’, Cuarón è ripartito da un altro ricordo di infanzia: quelle scatole di cereali della prima colazione che mangiavi non perché ti piacessero, ma perché una volta arrivati in fondo potevi trovare una sorpresa. Perché ‘Roma’ era quel giocattolo: grazie alla stabilità finanziaria legata al successo, per certi versi inaspettato, del film di fantascienza ‘Gravity’ con Sandra Bullock e George Clooney, Cuarón ha potuto finalmente fare il film che voleva. E in questo caso “fare” è la parola adatta, perché quel film non solo l’ha diretto e prodotto, ma anche montato e ha curato la fotografia (di nuovo tornando a quando era bambino e ancora non conosceva i vari mestieri del cinema e cosa facesse di preciso il regista). «Per la sceneggiatura ho voluto reinventare il mio modo di lavorare per fare qualcosa di completamente diverso, così ho iniziato a scrivere dandomi la regola di non tornare mai indietro, di non fare nessuna correzione finché non fossi arrivato alla fine. Una volta conclusa la sceneggiatura non l’ho fatta leggere a nessuno: non l’hanno letta i coproduttori, non l’hanno letta gli attori. Abbiamo girato tutto in continuità e gli attori scoprivano ogni giorno che cosa sarebbe successo».
‘Roma’ è un film eccezionale, per le emozioni che Cuarón ci ha messo dentro e per il modo in cui ha lavorato – «per la prima volta non sapevo come fare quello che stavo facendo» –, ma ogni lavoro di Cuarón ha una storia interessante che è emersa durante l’incontro. Pensiamo al suo primo lungometraggio, ‘Sólo con tu pareja’ del 1991: dopo averlo finanziato, il governo messicano si rifiutò di distribuirlo – «i burocrati mi dissero che non avrei mai più realizzato un film in vita mia» –, finché lui riuscì a venderlo alla Miramax di Weinstein. O ancora ‘Harry Potter e il prigioniero di Azkaban’: pareva l’incarico accettato per trovare i soldi e prendere confidenza con gli effetti speciali in vista di ‘Children of Men’, l’adattamento del romanzo di P.D. James del quale Cuarón aveva già finito la sceneggiatura e che nessuno sembrava voler produrre. «Non volevo dirigerlo, Harry Potter, poi ho letto il libro e ne ho capito la grandezza: J.K. Rowling non ha semplicemente scritto un libro sulla magia, ma sul passaggio dall’infanzia all’età adulta, della nostra società strutturata in classi perché il mondo di Harry Potter non è semplicemente fantasy, cosa che non è molto nelle mie corde, ma è un mondo radicato nell’umanità».
Alla fine lo fece, ‘Children of Men’ (sarà proiettato domani, lunedì, alle 10.30 al GranRex), e fu un insuccesso commerciale – ma questa è un’altra storia.