laR+ Locarno Film Festival

Giona A. Nazzaro, conversazione con il cinema

Dialogo attivo tra film e pubblico è ciò che si augura per Locarno77 il direttore artistico, che ci porta tra i contenuti del Festival che si apre oggi

‘Il direttore artistico sceglie per sé guardando al pubblico, e guardando al pubblico sceglie per sé’
(Keystone)
7 agosto 2024
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Alla vigilia del 77esimo Locarno Film Festival che si apre oggi ha tenuto banco l’apocalittico spostamento di data sul calendario dei festival cinematografici del pianeta, una variazione temporale che a Londra equivarrebbe a spostare Wimbledon sotto Natale (al chiuso, s’intende). Per rispettare le consuetudini del primo giorno, vogliate gradire di seguito – da Roger Corman a Nino D’Angelo, in totale e controllata libertà di pensiero – l'abituale chiacchierata d’inizio Festival con il direttore artistico.

Giona A. Nazzaro. La gente di teatro è solita dire che senza l’emozione del palco, anche dopo una vita spesa lì sopra, non avrebbe più senso fare l’attore. La cosa è applicabile anche alla categoria dei direttori artistici?

Ogni edizione del Locarno Film Festival è una prima volta. Il pilota automatico non subentra mai e nemmeno desidero che subentri, né lavoro affinché questo accada. Certo, un pilota automatico genererebbe meno preoccupazioni e ansia, questo per dire che ogni volta ce la si mette tutta, si sta in campana perché gli imprevisti sono tantissimi e dopo questi due macroterremoti vissuti dalla nostra industria – la pandemia e lo sciopero hollywoodiano – il mondo del cinema è ancor più in una sorta di tourbillon, che francamente considero la nuova normalità.

Quanto incide questa nuova normalità sulle scelte artistiche? Può aprire a nuove libertà di selezione?

Il direttore artistico sceglie per sé guardando al pubblico, e guardando al pubblico sceglie per sé. Al di là del calembour, io considero il mio lavoro su due fronti: da un lato portare ciò che nel pieno delle mie facoltà mentali ritengo essere il miglior cinema del momento a Locarno, e dall’altro lato portare il pubblico a considerare come interessante, divertente, piacevole l’ingaggiare una conversazione con questo cinema. Se non riesco a far dialogare il pubblico con questo cinema – che non significa dire “oh che bello, tutti capolavori!”, ma avere un rapporto vivo, reale con questi film – probabilmente devo ricalibrare qualcosa. Dico questo perché penso al pubblico come elemento attivo. Non si tratta semplicemente di attivare un monitor e far scorrere delle immagini, il cinema è un’altra cosa. Sperando che quanto sto per dire non suoni troppo autobiografico, penso alla mia esperienza di cinefilo, a quando si prendeva il treno per Bergamo per la Restrospettiva su Roger Corman, e l’acquazzone micidiale non fermava dall’andare a vedere ‘The Velvet Vampire’ di Stephanie Rothman, un film prodotto da Corman che oggi viene proiettato nei musei del cinema e sul quale si fanno, giustamente, grandi discussioni. Quando faccio riferimento a queste esperienze, faccio riferimento a un pubblico che decide consapevolmente di andare incontro a dei film e di ingaggiare con essi una conversazione attiva. Perché? Perché è bello, perché alla fine l’importante è il piacere, comprensivo dell’emozione di stare in sala e della lecita incazzatura del chiedersi “Ma che razza di film è questo?”.

La composizione del Concorso, per metà al femminile guardando ai registi, ha generato grande attenzione a livello internazionale. È una scelta voluta?

Sì, la scelta è voluta. Il fatto che gran parte delle opere cinematografiche più potenti possa arrivare da registe è qualcosa che ho scoperto progressivamente sul campo, sin da quando stavo a Venezia. Andare a cercare questi sguardi è un modo per ampliare l’orizzonte del possibile. Soprattutto, non trovo interessante la risposta sistemica “ci sono poche donne perché la produzione è tutta al maschile”. Ci tengo a dire che non vi è alcuna motivazione ideologica in questa scelta, si torna dunque al principio del piacere. Perché vado al cinema? Per vedermi confermate le cose che già so o per espormi consapevolmente all’impatto del nuovo, del possibile, all’intuizione del domani? La motivazione è sempre legata alla disponibilità e alla curiosità, ovvero la motivazione che mi spingeva al cinema da ragazzo, l’esporsi consapevolmente a ciò che non conosci, perché è solo in questo modo che puoi imparare qualcosa di diverso. Film come ‘Toxic’, o ‘Fogo do vento’, che abbiamo in Concorso, sono opere che sarei disposto a difendere sulla pubblica piazza. Ricordiamoci delle stroncature di ‘Sweetie’, anche risentite, un film per il quale si parlò di anticinema, e oggi ritroviamo Jane Campion (Pardo d’Onore a Locarno77, il 16 agosto in Piazza Grande e il 17 al Forum @ Spazio Cinema, ndr) tra le più grandi e tra i più grandi registe e registi.

Quest’anno saranno quattro i film svizzeri in Piazza Grande. Le ripropongo la domanda di un anno fa, per aprire a una sua valutazione aggiornata del cinema svizzero: è concessione territoriale o rinnovata stima?

È un momento interessante per la produzione svizzera, lo dicono i film acquistati per la distribuzione internazionale, quelli oggetto dell’attenzione di mercati come Cannes, che ha appena nominato la Svizzera ‘Paese d’onore’. Da quasi sette-otto anni, forse più, gli svizzeri sono considerati cineasti internazionali e non più solo l’espressione di un Paese numericamente piccolo la cui produzione culturale è normalmente identificata con altro. Qualcuno potrebbe dire che quattro film in Piazza sono troppi? Io rispondo che abbiamo un thriller fantascientifico-intimista come ‘Electric Child’ di Simone Jaquemet che ha debuttato al Sundance; abbiamo il nuovo film di uno dei più grandi animatori del cinema a passo uno, Claude Barras; abbiamo il nuovo film di Laetitia Dosch, diva di prima grandezza in Francia. È stato solo al momento della carrellata all’indietro su quanto selezionato che ho potuto constatare la provenienza di questi quattro film. La questione dell’‘inevitabile quota’ è smentita dal fatto che ‘Der Spatz im Kamin’ dei fratelli Zürcher è il primo film che abbiamo invitato, di tale forza da porre l’asticella del Concorso a un livello molto alto, cui le restanti opere si sono dovute adeguare.

A Locarno77 il cinema statunitense pare stare più in figure produttive come Stacey Sher o tecniche come Ben Burtt che nelle pellicole tout court. Detto più brevemente, il 2024 non sarà l’anno dei blockbuster, forma di cinema dalla quale peraltro Locarno ha dimostrato di non dover dipendere…

Il cinema statunitense c’è ed è in Piazza Grande, in un thriller abbastanza straordinario e fuori dagli schemi come ‘Sew Torn’ di Freddy Macdonald, ambientato in un piccolo villaggio svizzero. Per vitalità inventiva a me ricorda i primissimi Cohen, quelli di ‘Arizona Junior’ e ‘Sangue facile’, o il primissimo Danny Boyle, quello di ‘Shallow Grave’. Fuori Concorso abbiamo il nuovo film di Vincent Grashaw, ‘Bang bang’, storia di un pugile suonato interpretato da Tim Blake Nelson, uno degli attori feticcio dei fratelli Cohen, il cowboy cantante della ‘Ballata di Buster Scruggs’. Quando ho tentato di convincere Vincent a venire a Locarno Fuori Concorso gli ho detto che il miglior complimento che avrei potuto fargli è che il suo è un film alla Hal Ashby, una cosa alla ‘Fat City’.

Io adoro incondizionatamente il cinema americano, sono ancora lì dove Wim Wenders diceva che “gli americani hanno colonizzato il nostro subconscio”, e per fortuna che mi hanno colonizzato decenni fa e non oggi! Quanto ai blockbuster, nei confronti del cinema statunitense sono sempre possibilista, ma ora il pensare modulare di quel loro tipo di cinema m’inquieta molto. La libertà che dovrebbe essere garantita da un grande budget, quella di inventare spettacoli fantasmagorici, mi pare abbia ceduto il posto alla ripetizione coatta affinché tutti i settori ancillari di questi film possano comunque continuare a produrre profitto, dunque anche un film di un supereroe che va male, alla fine va bene perché ancor prima che la pellicola arrivi nelle sale si sono già stipulati i contratti per i popcorn, le magliette, i giocattoli, i gadget, i videogiochi e le interfacce sui motori di ricerca.

Locarno77, si è detto a proposito dei contenuti, è il ruolo della donna nella società, la frontiera, l’Intelligenza artificiale (Ia). Quest’ultima applicata al cinema mi rimanda a Peter Luisi, ‘censurato’ a Londra per un film scritto interamente dall’Ia. La sua posizione in merito?

A Locarno77 c’è un film realizzato completamente con l’Ia, senza una sola immagine vera. È del cineasta portoghese Edgar Pêra, grande studioso di Fernando Pessoa, che ha pensato di unire due sue passioni – Pessoa e Lovecraft – in un film intitolato ‘Lettere telepatiche’, una conversazione epistolare fra i due mai avvenuta. Pêra ha creato nel tempo una mole straordinaria di falsi archivi su quel che sappiamo di Pessoa e Lovecraft, consegnata insieme alle informazioni vere a un programma di Ia al quale il regista ha posto domande. Pêra definisce il suo film “l’era Vhs dell’Intelligenza artificiale”. Dico quindi che non si tratta di rifiutare l’Ia come il rasoio elettrico perché si preferisce quello a mano libera; si tratta di chiedersi cosa si vuole fare con l’Ia, che è ben più di Alexa.

Rischiamo di diventare quelli che avevano paura della tv a colori?

Se usiamo l’Ia per tagliare posti di lavoro, allora siamo ancora fermi a Metropolis e al robot Maria, che chiama gli operai alla rivolta. Se vogliamo sostituire la forza lavoro con dei programmi informatici allora la risposta è semplice: è un uso sbagliato. Vogliamo invece ampliare le possibilità immaginarie, sovversive, insurrezionali della creatività umana aprendo un nuovo fronte di dialogo poetico, creativo? Questa è una cosa interessante. Per fare riferimento a un film che abbiamo avuto a Locarno, ‘Regola 34’ (Pardo d’Oro nel 2022, ndr), di ogni film esiste la sua versione per adulti. Sull’Ia tendo a essere realista, pur continuando a comperare e regalare Blu-ray ignaro che il destinatario del regalo sia privo da anni di un lettore dvd.

Scrivono le agenzie: ‘L’arrivo di Shah Rukh Khan sta già mobilitando i suoi numerosi fan, il che promette di essere un grattacapo per gli organizzatori’. La star indiana è il vero red carpet di questa edizione?

Shah Rukh Khan è un desiderio che diventa realtà. La sua presenza è anche un modo per dire a una comunità enorme disseminata nel mondo che anche noi condividiamo i loro entusiasmi e amori. Vidi per la prima volta un film con Shah Rukh a Venezia. Era ‘Asoka’, la storia di un condottiero indiano che mi fece subito pensare a un film italiano degli anni 50/60, di quelli che avrebbe potuto fare Riccardo Freda, con la passione per i campi larghi e le gesta eroiche. Ho continuato a seguire l’attore a Roma, grazie ai negozietti degli indiani a Piazza Vittorio, che vendevano i dvd piratati senza nemmeno i sottotitoli, ma le cui storie così schiette s’intuivano facilmente. Da partenopeo, quando guardo i film di Shah Rukh Khan giovane, mi pare di vedere i film del primo Nino D’Angelo, di fronte ai quali la gente si commuoveva anche se le storie erano sempre le stesse. Non è un caso che oggi Nino, a Napoli e nella comunità degli italiani nel mondo, abbia una dimensione mitologica come l’attore indiano. È questo aspetto transnazionale legato profondamente alle radici delle persone che mi entusiasma, e che volevamo celebrare. Shah Rukh Khan è l’internazionale del cinema popolare.

Da strenuo sostenitore dello spostamento del Festival in altra data ma solo per evitare la spiacevole sensazione del presentarsi alle interviste madidi di sudore, le chiedo di commentare le recenti parole di Maja Hoffmann sulla necessità di spostare, appunto, il Locarno Film Festival in un altro momento dell’anno, o dell’estate, ancora in fase di ipotesi.

La questione delle date, così come affermata dalla presidente, è effettivamente un tema intorno al quale si sta discutendo. È ovviamente un tema complesso rispetto al quale ci sono molti interlocutori da interpellare e considerare.

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