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Perché tradurre è un po' tradire

Con Maurizia Balmelli, Premio di qualità per la miglior traduzione 2023 assegnato da La Lettura, il settimanale letterario del Corriere della sera

Maurizia Balmelli
(Ti-Press)
20 dicembre 2023
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Da una dozzina d’anni un’ampia cerchia di autori, critici e lettori eccellenti sono invitati da ‘La Lettura’, settimanale letterario del “Corriere della sera”, a esprimere una classifica di qualità dei migliori libri usciti in Italia nel corso di ogni anno. Dal 2017, un premio viene anche assegnato alla miglior traduzione in italiano di un libro straniero, e il verdetto, pubblicato qualche giorno fa, rende onore e omaggio quest’anno agli ultimi due romanzi dello scrittore americano Cormac McCarthy, ‘Il Passeggero’ e ‘Stella Maris’, pubblicati entrambi da Einaudi.

Traduttrice di entrambi i volumi e logica vincitrice di un meritatissimo premio di qualità della traduzione è Maurizia Balmelli, locarnese da anni residente a Parigi dove da oltre un ventennio lavora e firma le versioni in italiano di grandi autori di lingua inglese e francese, da Emmanuel Carrère a Ian McEwan, da Jean-Marie Le Clézio a, appunto, Cormac McCarthy. L’occasione è, dunque, quella di parlare con Balmelli del significato di questo prestigioso riconoscimento e del lavoro, prezioso quanto non sempre riconosciuto a dovere, di traduttrice.

Maurizia Balmelli, Cormac McCarthy è stata la tua ultima fatica, o faticaccia, vista la profondità di scrittura dell’autore, difficile da leggere e da capire, figuriamoci da tradurre: come definiresti il rapporto con i suoi libri e il suo mondo?

Domanda difficile. Se tu me l’avessi posta su ‘Suttree’, che è considerato il suo capolavoro, ti avrei detto di come fosse viscerale, di come nel tradurre mi sentissi accompagnata da McCarthy, perché dietro ogni grande autore c’è un disegno, magari non consapevole, ma c’è. È l’arte all’opera. Agli inizi, 25 anni fa, con la traduzione dei primi libri, m’intestardivo, cercavo mille conferme di non aver preso una cantonata; scavavo molto, e più scavavo e meno trovavo, come se la materia si sgretolasse sotto le mie unghie. Con uno come McCarthy, o come Martin Amis, non si sgretola nulla, è tutto marmo.

Quello che è successo con ‘Il Passeggero’, nello specifico, la cosa che ha spiazzato me, gli editor, tutti, è stata l’introduzione della figura di The Kid, che è l’emanazione della protagonista, un’enfant prodige della fisica e della matematica, schizofrenica, che soffre di allucinazioni. The Kid, drammaturgicamente, è il protagonista di queste allucinazioni, ma di fatto è l’inconscio con il quale lei dialoga, si scontra, ha un conflitto costante. The Kid sa di lei cose che nemmeno lei sa, e in quanto inconscio che attinge a profondità ignote a noi umani, restituisce a lei, e a noi lettori in seconda istanza, una conoscenza che sfugge. Per il resto, McCarthy, mente enciclopedica, altro non fa nel libro che affinare quanto fatto sin dall’inizio, spaziando in vertiginosi ambiti dello scibile.

Ciò che mi ha affascinato profondamente del ‘Passeggero’, ancor più di ‘Stella Maris’, è la cifra mistica: ti accorgi che l’autore sa perfettamente che non scriverà più; dice addio ai suoi personaggi, alla sua storia, ai suoi lettori, come in un tentativo estremo di elevarsi il più possibile, prima di staccarsi e andare via.

In mezzo ai due libri premiati, entrambi da te tradotti, c’è ‘Lezioni’ di Ian McEwan, altro autore che conosci bene. Hai tradotto anche Martin Amis. Di fronte a tre differenti autori anglofoni, uno americano e due inglesi, ciascuno col suo linguaggio e la sua cifra stilistica, come avviene l’approccio?

Dopo venticinque anni posso dire di saper passare da un registro all’altro, da una voce all’altra, di essere sufficientemente mimetica, avendo tradotto le cose più disparate. Ian McEwan lo conosco come lettrice, soprattutto la sua prima produzione. Di lui ho tradotto ‘Sweet Tooth’, in italiano ‘Miele’, perché la sua traduttrice Susanna Basso non poteva; mi sono resa conto in quel caso della differenza tra l’inglese di McEwan e quello di Amis, che erano amicissimi, inseparabili. L’inglese di McEwan è più classico, quello di Amis è sfidante, splendidamente bastardo. A Ida Bozzi (nell’intervista rilasciata a La Lettura, ndr) l’ho definito ‘crudele’, nella misura in cui Amis sa sempre esattamente ciò che fa ma non te lo dice, sai che lo sgambetto è dietro l’angolo, anche solo dal punto di vista lessicale. Amis, che era difficile da tradurre, mi procurava un piacere estetico: tutto è a posto, la lingua è sublime, compiuta in sé stessa, con un andamento che solo lui possiede. E poi i suoi incipit, da capogiro! In tutto questo, se hai la capacità di intonare le varie voci, come un cantante lirico governa un’estensione molto ampia, il grande autore ti dà gli strumenti: riprodurre la sua lingua, che ha un timbro ben preciso, è un piacere, anche se laborioso.

Sei traduttrice anche dal francese, cito Carrère. Sempre a Ida Bozzi hai detto che il fatto di avere non una, ma due lingue da volgere in italiano è cosa che avvantaggia...

Premetto che le lingue sono sistemi chiusi, non per forza dialoganti, a maggior ragione non sovrapponibili; chi traduce va per approssimazione, e in questo percorso tutto quello che concorre a farti aggiustare il tiro, a mantenerti sulla retta via, è benvenuto. E una delle cose che concorre, nel mio caso, è l’altra lingua, perché è come avere un’ulteriore sponda alla quale aggrapparsi, è il poter disporre di due strumenti di controllo anziché uno: io traduco dall’inglese, il giorno dopo rileggo con l’inglese accanto e devo convincermi che sia una buona formulazione; poi chiedo al francese come avrebbe tradotto; insieme all’italiano, dispongo di un polo dialettico in più. In quello che è un lavoro solitario, il mio, avere due lingue equivale a rivolgersi a una sorta di amico immaginario informato sui fatti, che ti dà suggerimenti, da mediare.

Quanto pesa, su Maurizia Balmelli, il senso di responsabilità di tradurre senza tradire?

Le migliori traduzioni tradiscono, una traduzione che non tradisce è una traduzione sospetta, perché per arrivare alla verità, molto spesso è necessario tradire. Tra i vari autori che ho affrontato ce n’è uno, del quale cercherò di non svelare il nome, che a un certo punto s’è messo in testa di sapere l’italiano per il solo fatto di avere preso una decina di lezioni, lui che è persona che arriva da un orizzonte composito, linguistico e culturale: mi ha fatto le pulci su singole parole in un modo che alla fine lo ha condannato. Qualcuno dà per assodato che le lingue siano intercambiabili, ma l’italiano è una lingua polisillabica pluriaccentata, con almeno cinque accenti tonici; il francese ne ha uno e l’inglese uno e mezzo.

In francese le parole sono tronche, in italiano sono tronche, piane, sdrucciole, bisdrucciole e trisdrucciole. Con questa materia sonora dobbiamo lavorare, non possiamo fare finta che non esista. Dobbiamo manipolare per cercare di restituire il più possibile la tessitura del testo di partenza, ma il fatto di voler approdare a un testo con caratteristiche morfologiche più vicine all’originale ti chiede per forza di tradire sul piano lessicale, su quello della scelta sinonimica. E mi manda in bestia pensare che ci sia gente che scrive e non si pone la questione, chiedendoti il perché della scelta di un sinonimo così lontano, “quando ce l’avevi davanti”. Io ho dovuto spiegare che il sinonimo davanti faceva cinque sillabe, quello lontano ne faceva due. Perché stavamo parlando di due lingue dal peso specifico diverso. Alla fine, nella traduzione c’è anche della matematica.

Ci stai ribadendo una cosa non sempre evidente, l’importanza del traduttore nella diffusione della cultura. In questo senso, hai ricevuto un premio in Svizzera e uno in Italia, terra che dei traduttori non ha mai avuto grande rispetto…

Sono onorata del premio italiano perché di traduttori bravi in Italia ce ne sono. In Svizzera non ho tutta questa concorrenza, ma la cosa nulla toglie al premio dell’Ufficio federale. A me che lavoro quasi esclusivamente per l’estero fa piacere sapere di essere presente nell’orizzonte degli svizzeri meritevoli.

Cosa resta da fare affinché vi sia un giusto riconoscimento del lavoro dei traduttori? Recensendo libri stranieri, La Lettura indica il nome del traduttore in italiano, scelta fino a qualche anno fa non così ovvia. Altrove, il traduttore è completamente dimenticato…

C’è una direttiva europea ben precisa, contro la cui attuazione l’Associazione italiana editori (Aie) è partita lancia in resta con fior di avvocati, perché non venisse attuata. Scandaloso. Parlo di me: se io, con tutti i libri tradotti in 25 anni, avessi potuto beneficiare delle famose ‘royalties’, se quel libro che vende più di tot copie, e che fa guadagnare l’editore, sottostasse a una ridistribuzione equa, minima, e non a un pagamento a cottimo del mio lavoro come fossimo nell’Ottocento, oggi avrei un appartamento con la piscina, come minimo. Ho tradotto tre Vargas, McEwan, Carrère, McCarthy, Yasmine Reza, che stampano e ristampano: è arrivato il momento di smettere di chiacchierare e chiedere non di essere pagati di più, ma di farci cambiare statuto.

Prendiamo McCarthy, scrittore che vende già tanto di suo e dalle ristampe io non guadagno nulla: vinco un premio, non intasco niente e il libro ha un ulteriore rilancio. Tutto questo non va bene. La direttiva europea dice, tra le tante cose, che se a un traduttore viene stipulato un contratto con una certa cifra a pagina e poi il libro vende più di quel che ci si attendeva, è necessario rivedere la distribuzione degli introiti. Per quanto sia vago, è un concetto sul quale bisogna lavorare, il resto è fuffa. In Francia, un traduttore di vent’anni guadagna più di me che traduco da 25 anni, e beneficia delle royalties. E anche se fossero 500 euro in più, diventa una questione di principio.

Com’è la situazione in Svizzera?

Parlo per il Ticino: quando traduco un libro guadagno, a pagina, tre volte quel che guadagno in Italia, ma da noi si cedono i diritti ad vitam. È vero che qui si è pagati bene, che ci vengono remunerati il tempo e la fatica, ma una volta tradotto, il libro diventa oggetto di consumo riproducibile e può fruttare per l’eternità. E il traduttore, in tutto questo, cosa ci guadagna?

Si aprirebbe qui il discorso su cosa potrebbe voler dire per un editore cominciare a ricorrere all’intelligenza artificiale…

Non volevo aprire il discorso. La prossima volta. Me ne sto abbastanza alla larga, è un tema ansiogeno…

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Per gentile concessione di www.naufraghi.ch, che ospita la videointervista

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