Evtando ii cliché del cinema sociale, il regista ha realizzato un thriller che racconta immigrazione e precarietà economica
Ma un film che parla di immigrazione, di precarietà e di sfruttamento dei lavoratori occasionali deve per forza ricadere nei cliché del cinema sociale à la Ken Loach? Mi immagino Boris Lojkine porsi questa domanda e rispondere che no, non è necessario e, di fronte agli sguardi perplessi dei presenti, realizzare ‘La storia di Souleymane’, questa sera al Mercato Coperto e in replica mercoledì alle 8.30 al Forum di Bellinzona. Perché questo film è di fatto un thriller urbano dal ritmo serrato: Souleymane (l’incredibile Abou Sangare, attore non professionista meritatamente premiato a Cannes per la sua interpretazione) è un rider guineano, costretto a usare l’account di un conoscente senza garanzie di essere pagato e col rischio di venir fermato dalla polizia, mentre si prepara per il colloquio con l’Ofpra, l’ufficio francese per i rifugiati, imparando a memoria una storia credibile e convincente.
Il film racconta le 48 ore che precedono quel colloquio, ore fatte di corse in bici, incidenti stradali, discussioni con clienti e ristoratori, telefonate con le persone care rimaste in Guinea, tra cui la fidanzata che sta pensando di sposare un altro uomo e, grazie anche al montaggio di Xavier Sirven, si rimane catturati dal ritmo serrato e frenetico di una storia nella quale il minimo intoppo rischia di far crollare la vita di Souleymane. Boris Lojkine ha così evitato il classico film di denuncia, affidando l’urgenza sociale e politica al realismo, a tratti quasi documentaristico, raggiunto grazie a un lavoro meticoloso di documentazione sulle condizioni di lavoro dei rider, sulla vita dei richiedenti l’asilo, sul lavoro dei funzionati dell’Ofpra e alla scelta di lavorare con troupe di piccole dimensioni, così da catturare l’autenticità delle scene in strada.
‘La storia di Souleymane’ racconta l’immigrazione, la precarietà e la gig economy mostrandoci semplicemente un uomo che cerca di sopravvivere in una città che lo usa ma non lo vede.